“Marx è l’unico che, nel secolo XIX, tenti una spiegazione, sulla base delle stesse forze interne, sia delle fluttuazioni periodiche sia del movimento lineare dell’economia capitalistica. Invece che accidenti causati da fattori esogeni, le crisi sono, per Marx, «sempre e solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato» (23). D’altra parte, le crisi non sono fenomeni di circolazione; l’equilibrio che ristabiliscono non è tra domanda e offerta, né tra produzione e consumo. Si tratta invece di un equilibrio nei rapporti tra capitale, considerato complessivamente, e popolazione operaia, la forza lavoro, considerata anch’essa complessivamente; equilibrio soggetto a perturbazioni sempre maggiori nella misura in cui l’economia capitalistica si sviluppa, tanto che le crisi, sempre più acute, si succedono a intervalli sempre più brevi: «Fino ad oggi la durata periodica dei cicli è di dieci-undici anni, ma non c’è nessuna ragione per considerare costante questa cifra. Al contrario si deve inferire dalle leggi della produzione capitalistica (…) che è variabile e che il periodo dei cicli si ridurrà gradualmente» (24). Infatti, le leggi che regolano l’economia capitalistica le consentono «di superare questi limiti immanenti» ma unicamente «con mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala rinnovata e più alta» (25)” (pag 66-67) [Krzysztof Pomian, L’ordine del tempo, Einaudi, Torino, 1992] [(23) Karl Marx, ‘Das Kapital’, Hamburg 1894, libro III, sez. 3, cap. XV, II, trad. it. ‘Il Capitale. Critica dell’economia politica’, Torino, 1975, pp. 349-50]; (24) Ibid., Libro I, cap. XXV, III; (25) Ibid., libro III, sez. 3, cap. XV, III, trad. it. cit., pp. 350-51]