“Si comprende così la ragione per cui Schumpeter separa nella sua analisi critica il «Marx economista» dal «Marx sociologo» e attacca con sarcasmo, anche se con risultati analiticamente non sempre convincenti, il nesso tra riproduzione allargata e antagonismo di classe che in Marx è perno dell’analisi del capitalismo. Se dunque in ‘Capitalismo’ (*) troviamo una rivalutazione dell’importanza delle classi sociali nella comprensione dello sviluppo (contro Walras), ivi è contenuta anche una continua svalutazione dell’antagonismo come elemento motore del rapporto fra le classi. Così da una parte leggiamo: «Gli economisti sono stati stranamente restii a riconoscere il fenomeno delle classi sociali. Hanno sempre classificato gli agenti dal cui concorso traeva origine il fenomeno in discussione, è vero: ma per loro le classi erano semplici gruppi di individui presentanti determinati caratteri comuni; ad esempio, un certo numero di persone erano classificate come proprietari terrieri o come lavoratori, perché possedevano terre o vendevano la propria forza lavoro. Ora, le classi sociali non sono creature dell’osservatore che le classifica, ma entità viventi che esistono come tali, e la cui esistenza produce effetti che sfuggono totalmente a uno schema in base al quale la società appaia come un aggregato informe di individui o di famiglie. Resta da vedere quale importanza abbia esattamente il fenomeno delle classi sociali per le ricerche nel campo della teoria economica pura: ma che sia molto importante per diverse applicazioni pratiche e per aspetti più vasti del processo sociale in genere, è fuori dubbio» (31). Peraltro, poche pagine oltre il passo ora citato, Schumpeter critica duramente la teoria della «cosiddetta accumulazione originaria» e quindi la spiegazione che Marx offre alla genesi del processo capitalistico. Il suo attacco è centrato sulla negazione che la violenza sia la levatrice del capitalismo: «Marx accettò sostanzialmente la concezione borghese che il feudalesimo fosse un regime di violenza, in cui l’oppressione e lo sfruttamento delle masse erano ormai fatti compiuti. La teoria delle classi, destinata in origine a spiegare le condizioni della società capitalistica, venne così estesa al suo predecessore feudale – come molta parte dell’armamentario di concetti della teoria economica del capitalismo – e alcuni dei problemi più spinosi furono messi a tacere nel magma del feudalesimo per riapparire come dati di fatto consolidati nell’analisi della struttura capitalistica. Lo sfruttatore feudale fu semplicemente sostituito dallo sfruttatore capitalistico. Nei casi in cui signori feudali si trasformarono effettivamente in capitani di industria tanto basterebbe a risolvere quello che del problema è così rimasto. La documentazione storica viene in parte a soccorrere questa tesi: in realtà, molti signori feudali, soprattutto in Germania, crearono e diressero fabbriche, spesso attingendo alle proprie rendite feudali i mezzi finanziari indispensabili, e alla popolazione agricola (non necessariamente, ma talvolta formata dai loro servi) la forza-lavoro. In tutti gli altri casi, il materiale storico disponibile per colmare la lacuna è decisamente inferiore, e il solo modo soddisfacente di definire la situazione è che, da un punto di vista marxista, non esiste spiegazione soddisfacente…» (32). Il ragionamento schumpeteriano si configura non tanto nei termini di una analisi critica alla spiegazione che Marx svolge della genesi del capitalismo tesa a porre in rilievo le contraddizioni eventualmente emergenti sul piano analitico; piuttosto esso si configura come tentativo di sostituzione delle tesi marxiane con un differente apparato esplicativo. Questa posizione, che è certamente legittima nell’ambito della ricerca di una sintesi alternativa, quale Schumpeter si propone, non è tuttavia sostenuta da una ricerca storico-economica che permetta di considerare l’apparato esplicativo che viene sostenuto qualcosa di più di una «copertura ideologica»: nelle visioni preanalitiche c’è sempre (ci «deve» essere) una forte componente ideologica; ma se questa non riesce a trasformarsi in apparato analitico che regge alla prova dei fatti, la sua rilevanza diviene pressoché nulla; ora, il destino della teoria delle classi sociali che Schumpeter elabora (nel 1927) in ‘Le classi sociali in ambiente etnicamente omogeneo’ (33) sembra essere proprio questo, e le considerazioni ivi sviluppate, per la debolezza della struttura analitica e del riscontro fattuale, costringono a considerare tale lavoro al più come un abbozzo di teoria” [Massimo Egidi, ‘Schumpeter. Lo sviluppo come trasformazione morfologica’, Milano, 1981] [(*) ‘Capitalismo, socialismo, democrazia’, Milano, 1955; (31) J.A. Schumpeter [1955], p. 12; (32) Ibidem, pp. 15-16; (33) J.A. Schumpeter [1972b]: (in) ‘Sociologia degli imperialismi’, Laterza, Bari, traduzione di “Die sozialen Klassen im ethnisch – homogenen Milieu”, in ‘Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik’, vol. LVII]