“Grande fu invece la maraviglia che suscitò in qualche economista di professione, che il Croce, nel disputare, poneva sovente in impaccio, come colui che – a differenza del suo interlocutore, il quale conosceva al certo maggior numero di cose, ma non ne vedeva il nesso – aveva fermi i concetti fondamentali e ne traeva le conseguenze. Li aveva così fermi da comprendere ciò che gli economisti di professione non comprendevano: che, per approfondire il marxismo, convenisse anzitutto approfondire la concezione che il marxismo stesso aveva della realtà, ossia della filosofia. Per qualche tempo codesto modo di concepire il problema economico, lungi dallo spiacere al Labriola, fu da lui applaudito e incoraggiato, così in iscritto come a voce. (…) Plaudì quando in una monografietta sul comunismo di Tommaso Campanella, pubblicata nell’ottobre 1895, il Croce fece veder chiaro come l’avere affrontato il medesimo tema senz’alcuna seria preparazione, ma lavorando di terza o quarta mano e con la più assoluta mancanza di buon senso e di chiarezza nei principi direttivi, aveva fatto invischiare un santone del socialismo, Paul Lafargue, genero di Carlo Marx, in una selva selvaggia di spropositi grossolani. Nè plaudì soltanto, ma gioì, esultò, tripudiò, quando, l’anno appresso, in un lungo saggio su ‘Le teorie storiche del professor Loria’, ben sei libri, pubblicati da costui dal 1880 al 1894, divennero per Croce oggetto d’una vera e propria strigliata. Senonchè a poco a poco le acque s’intorbidirono. E invero – racconta il Croce, – «se mi era facile contentare il Labriola, svolgendo una metodica critica del Loria o eseguendo ricerche storiche sopra questo o quel comunista», per esempio sul mentovato Vincenzo Russo, «non mi era, nonchè facile, possibile di corrispondere alle maggiori speranze che egli [Labriola] aveva in me riposte. Finì con l’avvedersene egli stesso, e, nei momenti di malumore, pur senz’ombra alcuna di malevolenza, mi chiamò un “intellettuale”, un “letterato”, un “indifferente alle lotte della vita”, amatore solo dei “dibattiti delle idee nei libri”, un “epicureo contemplante”, e, ancora, “un uomo operoso nello studiare e nello scrivere unicamente per fuggire la noia che lo minacciava”». Giudizi – continua il Croce – tanto più ingiusti in quanto «il dilettantismo intellettuale e letterario era contrario al mio temperamento; di fuggire la noia non provavo alcun bisogno, perchè ricordo bensì di avere sofferto dolori acerbi, ma non mai di essermi annoiato, avendo posseduto sempre qualche affetto che mi animava e qualche lavoro da compiere. La verità è che io ero preso da una passione taciturna e tenace per la ricerca scientifica, indirizzata a risolvere alcuni problemi che erano nel fondo del mio essere e che faticosamente venivo traendo fuori e schiarendo a me stesso. E; poichè ho sempre tenuto segno di sanità spirituale che l’uomo abbia una passione dominante e una corrispondente attività principale, mercè di cui dia armonia e ordine e gerarchia a tutte le altre passioni ed attività, che come ad uomo gli appartengono, era naturale che io non potessi sentire il socialismo, e la politica in genere, al modo stesso in cui li sentiva un uomo di predominante passione e disposizione politica»” (pag 163-166) [Fausto Nicolini, ‘Benedetto Croce’, Utet, Torino, 1962]