“Se, a partire dal 1858, Marx respinge la “concezione astratta del progresso”, facilmente confusa con l’abitudine e la routine, in che modo, allora, lo concepisce? Tutta la sua logica si oppone a una visione unilateralmente quantitativa. La riduzione dei rapporti umani alla freddezza dei rapporti monetari e la mera accumulazione di merci non possono costituire una prova di civiltà. Il solo sviluppo delle forze produttive, pur necessario, non costituisce una condizione sufficiente. I criteri maggiormente invocati sono più sociali che tecnici: i rapporti tra uomo e donna (nei ‘Manoscritti’ del 1844), la conquista di un tempo creativo liberato contro il tempo asservito e alienato del lavoro salariato (nei ‘Grundrisse’), l’arricchimento della specie e della personalità individuale attraverso lo sviluppo e la diversificazione dei bisogni. L’ordine cronologico non è garanzia di nulla. Per convincersene è sufficiente leggere le magnifiche pagine di Engels nella ‘Guerra dei contadini’. Nella storia reale, il vinto non ha obbligatoriamente torto e il vincitore non ha necessariamente ragione. Lo sguardo critico dell’oppresso sugli “avvicendamenti” del progresso sembra negare anche la missione civilizzatrice altrove riconosciuta al capitalismo. Tuttavia, scrive Marx, «Il problema è il seguente: può l’umanità adempiere il proprio destino senza che avvenga una rivoluzione fondamentale nei rapporti sociali dell’Asia? Se così non fosse, quali che siano stati i delitti commessi dall’Inghilterra, essa è stata lo strumento inconsapevole della storia nel suscitare quella rivoluzione. E allora, qualsiasi amarezza desti in noi lo spettacolo della disgregazione di un mondo antico, abbiamo il diritto, dal punto di vista storico, di esclamare con Goethe: “Piangeremo come un danno, / ciò che dona voluttà / Forse Timur, il tiranno, / fatto vittime non ha?”» (61). La conclusione non lascia dubbi. D’altra parte l’atteggiamento di Marx davanti all’annessione del Texas e della California da parte degli Stati Uniti lo conferma. Come i «popoli senza storia» sono sacrificati al dinamismo delle nazioni storiche, così il colonialismo sarebbe parte, malgrado i suoi orrori, di una modernizzazione civilizzatrice. I partigiani dichiarati del colonialismo in seno alla II Internazionale, come David o Van Kol, hanno potuto trarne un argomento per giustificare il loro sostegno molto poco critico alle spedizioni imperialiste dell’inizio del secolo (62). Marx, tuttavia, esprime piuttosto un malessere davanti a una contraddizione non risolta. Il ruolo coloniale dell’Inghilterra sarà “progressivo” se, e solamente se, l’umanità non arriverà a rivoluzionarie i rapporti sociali in Asia. Allora, e solo allora, si potrà considerare che essa ha svolto questo ruolo, senza dimenticare che lo ha fatto attraverso il crimine” [Daniel Bensaïd, ‘Marx, l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica’, Milano, 2007] [(61) Karl Marx, ”La dominazione britannica in India’, il Karl Marx Friedrich Engels, ‘Opere’, vol. 12, Roma, 1978, p. 135; (62) Cfr. Roman Rosdolsky, ‘Le problème des peuples sans histoire’ (inedito in francese). E’ importante ricordare che i testi di Marx ed Engels sono precedenti all’apparizione di ciò che Lenin, Rosa Luxemburg, Bucharin, Hilferding caratterizzarono come imperialismo moderno. Sui congressi della II Internazionale e la questione coloniale, cfr. Stuart Schramm e Hélène Carrère d’Encausse, ‘Le Marxisme et l’Asie’, Armand Colin, Paris, 1965]