“(…) la condizione base per effettuare il processo di produzione capitalistico è che il plusvalore ricavato deve essere sufficiente ad assicurare la riproduzione allargata. Per questa ragione i rapporti di valore si trasformano in rapporti di tempo di lavoro, in quanto il ‘plusvalore’, prima di essere tale deve realizzarsi come ‘pluslavoro’, come lavoro effettuato in più dall’operaio. In questo contesto può determinarsi  la contraddizione tra l’esigenza capitalistica di ridurre i costi di lavoro attraverso l’impiego di sempre nuove tecnologie e la riduzione del tempo di lavoro sociale che ne deriva attraverso ‘l’estensione d’impiego’ delle stesse tecnologie. Nella sua rivalutazione completa di Marx rispetto a Keynes, il Mattick fa rilevare che “una riduzione del tempo di lavoro che disturbi il necessario rapporto tra plusvalore e capitale non è compatibile con la produzione capitalistica”. Ma la contraddizione è insanabile: “mentre la riduzione del tempo di lavoro sociale diventa nociva alla produzione di capitale, la riduzione dei costi di lavoro rimane una esigenza indispensabile per ogni singola impresa o società capitalistica”. La contraddizione è tra macroeconomia, a livello del capitale complessivo, che vede ridursi l’area di sfruttamento della forza-lavoro, e gli interessi di ogni singola impresa. Si determina, cioè, una condizione antagonistica tra la redditività dell’impresa che aumenta nella misura in cui i costi di lavoro diminuiscono, e l’espulsione di forza-lavoro di “operai produttivi” (come dicono preoccupati certi commentatori dell’economia italiana dopo lo scoppio della crisi energetica), che rende sempre più difficile il processo di accumulazione. Nell’analisi di Marx la condizione antagonistica tra riduzione dei costi di lavoro (quindi espulsione di manodopera) e riduzione del tempo di lavoro sociale, va identificata nel fatto che è la produttività del lavoro, non la “produttività del capitale”, pretesa dai fautori del capitalismo di Stato, che spiega e determina il profitto capitalistico. Nei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” Marx demolisce le interpretazioni dell’economia classica borghese osservando già allora che se “lo sviluppo dei moderni mezzi di produzione indica fino a che punto la conoscenza generale della società sia diventata una diretta forza produttiva, che costituisce la vita della società e ne determina la trasformazione”, tuttavia il contributo e l’intervento del capitalismo in questa fase di trasformazione non può consistere altro “che nell’uso che esso fa di tutti i mezzi delle arti e delle scienze, sotto forma di valore, non è altro che l’appropriazione del tempo di pluslavoro”. E’ ciò che non capivano i “futuribili” progressisti degli anni Cinquanta (e gli attuali continuatori) quando sentenziavano il superamento di molti assunti del marxismo e non vedevano il vero antagonismo tra progresso tecnico e interesse capitalistico. Soltanto in assenza di questo, cioè di rapporti capitalistici di produzione, “lo sviluppo della ricchezza sociale sarebbe caratterizzato da una continua riduzione del tempo-lavoro diretto, mentre la ricchezza della società sarebbe “misurata” non dal tempo-lavoro ma dal tempo libero”. Invece il capitalismo è spinto dall’interesse contrario a misurare la ricchezza in base all’appropriazione del tempo di pluslavoro; ed è per questo che negli ultimi decenni in America – come rileva Mattick – tutta una branca della sociologia borghese ha utilizzato la psicanalisi per dimostrare che il “tempo libero” crea delle frustrazioni nell’individuo. Evidentemente, siccome recenti inchieste giornalistiche hanno appurato che venti milioni di americani praticano il doppio lavoro (non conosciamo il quantitativo di operai che dopo le sei ore la settimana corta si impegnano in altre prestazioni, ma in base ai rapporti d’inflazione e di erosione salariale il fenomeno deve essere diffuso quanto in Italia) la sociologia asservita al capitale dirà certamente che questa è una reazione al malessere del tempo libero. Il fenomeno del doppio-lavoro, del lavoro clandestino e del lavoro a domicilio, è anche un indice delle controtendenze che agiscono a livello del capitale complessivo, dialetticamente, in forma “anarchica” oppure “programmata” dalle “economie di scala” come attività indotte, per contenere il restringimento dell’area di sfruttamento della forza-lavoro, cioè la diminuzione del tempo di pluslavoro complessivo. Riprendendo quanto Marx aveva già delineato nei “Grundrisse”, ancora Mattick (vedi introduzione all’opera di Grossmann “Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica”) sintetizza in questo modo la contraddizione fondamentale e quindi la tendenza alla crisi del capitalismo: “Sviluppo delle forze produttive sociali significa che con meno lavoro si può produrre di più, il che in una situazione capitalistica significa una crescita più rapida del capitale costante rispetto a quello variabile, cioè un numero decrescente di operai contrapposto a un capitale che cresce più rapidamente. Poiché all’accrescimento del plusvalore sono posti limiti assoluti, in quanto gli operai non possono né lavorare ininterrottamente né gratuitamente, la diminuzione relativa degli operai deve condurre alla diminuzione del pluslavoro e quindi risolversi in una caduta del saggio di profitto; la quale non può più venire compensata da un aumento del plusvalore”. E’ stato rilevato che il sospetto dell’esistenza di tale incompatibilità lo si ritrova in tutta la letteratura americana relativa all’automazione, un ‘sospetto’ che viene dagli effetti dell’automazione destinati ad allargare la più grossa piaga del capitalismo, la disoccupazione permanente. (…)” [Lorenzo Parodi, Realtà e mito dell’informatica, Lotta comunista, anno XI, n° 55]