“Il primo nodo di questioni riguarda il problema delle origini dello squilibrio capitalistico; il tratto fondamentale dell’età imperialistica, infatti, è considerato dalla tradizione marxista proprio lo squilibrio che a un certo punto interverrebbe nel sistema capitalistico «puro» provocandone radicali modifiche. In termini cronologici la nascita di questo squilibrio è fatta risalire alla grande depressione che ebbe inizio nel 1873; la discussione nasce sulla natura e le cause di questo squilibrio il quale è l’essenza stessa dell’imperialismo. Come è ben noto sono due i filoni interpretativi che si affrontano su questo terreno: quello che da Hobson – ma forse sarebbe più giusto dire da Malthus – arriva a Rosa Luxemburg e quello che si riassume nei nomi di Hilferding e di Lenin. Dalla rivoluzione di Ottobre in poi, per motivi fin troppo ovvi, è stato questo secondo che ha dominato il campo e ha massimamente influenzato sia in sede teorica che politica il marxismo rivoluzionario; le tesi della Luxemburg, viceversa, non sono mai riuscite a strapparsi di dosso, l’accusa di sottoconsumismo con la quale furono accolte al loro apparire da Lenin e Bucharin (e da molti altri ancora) per essere quindi giudicate irrimediabilmente erronee. Eppure oggi, per un riesame storico del fenomeno imperialistico da parte dei marxisti, forse l’eredità di Rosa Luxemburg è in un certo senso più feconda di quella di Lenin. Al di là infatti dei molti errori e delle molte ingenuità in cui incappò, due intuizioni fondamentali essa ebbe che meritano di essere prese nella più attenta considerazione, e cioè: a) che l’assillo permanente del capitalismo è rappresentato dalla crescita della domanda, ovvero – detto in altre parole – che il problema centrale de capitalismo moderno è la realizzazione del plusvalore potenzialmente disponibile in seguito all’accentuata capacità produttiva del sistema nel suo complesso; b) che il capitalismo è un sistema di produzione che ben lungi dal potersi diffondere su tutto il pianeta sancisce viceversa la separazione del mondo in due zone, una delle quali tende all’immiserimento crescente. Di fronte a queste due fondamentali intuizioni della Luxemburg – che, tuttavia, vale la pena di ripeterlo, si riallacciano a un filo rosso che percorre tutta l’economia classica – l’interpretazione di Lenin, incentrata com’essa è sulla struttura monopolistica e sul dominio del capitale finanziario su quello industriale, se da una parte appare più aderente alla realtà, dall’altra tuttavia mostra anch’essa numerosi punti deboli, giunge a conclusioni in larga misura inaccettabili ed è, io credo, meno suscettibile di essere utilizzata dagli storici come fonte di suggerimenti. Se infatti la Luxemburg ha il coraggio di sostenere apertamente la tesi del sottoconsumo e di portarla fino alle estreme conseguenze, Lenin non fornisce alcuna ragione plausibile per la quale il surplus di capitali, frutto dei super-profitti monopolistici, non avrebbe più convenienza ad investirsi all’interno ed emigrerebbe quindi all’estero. Al limite, la sua spiegazione che se investisse in patria «il capitalismo non sarebbe più tale, perché tanto la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semi-affamamento delle masse sono ‘inevitabili condizioni e premesse’ [corsivo mio] di questo sistema della produzione» può pensare a una sia pure inconscia premessa sottoconsumistica anche in Lenin; ciò che egli aggiunge infatti subito dopo: «Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza di capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del rispettivo paese perché ciò comporterebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti», salvo errore non può che significare che nella riproduzione allargata la somma dei salari e dei profitti della II sezione non è in grado di realizzare compiutamente il valore delle merci delle due sezioni prese insieme, che è appunto il presupposto da cui muovono tutti i sottoconsumisti. Si potrebbe tuttavia pensare che gli investimenti all’estero siano sollecitati dalla differenza tra i saggi di profitto, essendoci appunto un saggio maggiore nei paesi meno progrediti. Secondo Lenin il motivo di questa differenza sarebbe il seguente: «nei paesi meno progrediti – egli scrive – il profitto è ordinariamente assai alto perché colà vi sono pochi capitali, il terreno è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo». Si tratta come si vede di spiegazioni che spiegano poco; non si capirebbe altrimenti perché mai, permanendo attualmente le medesime condizioni, sia così difficile promuovere gli investimenti nei paesi cosiddetti sottosviluppati. Infatti, a meno di non pensare a una connessione produttiva di carattere organico tra i paesi che ricevono gli investimenti e i paesi da cui gli investimenti stessi provengono, rimangono valide le osservazioni che hanno svolto su questo problema Ragnar Nurske e tanti altri, secondo i quali l’incentivo ad investire nei paesi scarsamente progrediti trova un limite invalicabile nella ristrettezza del mercato. Che del resto Lenin non avesse meditato con sufficiente attenzione il problema dell’esportazione di capitali e degli investimenti esteri nelle zone arretrate sembra confermato dal fatto che egli conclude il ragionamento scrivendo che «l’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo». Il fatto è che forse è venuto il momento di riconoscere che Lenin, fisso con la propria attenzione sul fenomeno della concentrazione monopolistica e sull’integrazione sempre più stretta tra capitale finanziario e industriale, sospinto anzi dall’esempio della Germania a parlare di un dominio del primo sul secondo, ha enormemente esagerato il problema degli investimenti, scindendo questo aspetto della questione da quello della produzione delle merci che invece era al centro dell’indagine della Luxemburg”  [Ernesto Galli della Loggia, ‘Analisi marxista e storiografia dell’imperialismo’, estratto da ‘Quaderni storici’, n. 20, maggio-agosto 1972] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]