“L’Inghilterra ha tentato dunque l’annientamento del pauperismo innanzi tutto attraverso la ‘beneficenza’ e le ‘misure amministrative’. In seguito essa scorse nel progressivo aumento del pauperismo non la necessaria conseguenza dell”industria’ moderna, bensì piuttosto la conseguenza della ‘tassa inglese per i poveri’. Essa intese la miseria universale unicamente come una ‘particolarità’ della legislazione inglese. Ciò che prima si faceva derivare da un ‘difetto di beneficenza’, si fece ora derivare da un ‘eccesso di beneficenza’. Infine, la miseria venne considerata come una colpa dei poveri e in quanto tale punita in essi. La lezione generale che la ‘politica’ Inghilterra ha tratto dal pauperismo si limita al fatto che nel corso dello sviluppo, nonostante le misure amministrative, il pauperismo si è venuto configurando come una ‘istituzione nazionale’ ed è quindi inevitabilmente divenuto oggetto di una ramificata e assai estesa amministrazione, un’amministrazione la quale, però, ‘non’ ha ‘più’ il compito di eliminarlo, bensì quello di disciplinarlo, di eternarlo. Questa amministrazione ha rinunciato ad attivare la sorgente del pauperismo attraverso mezzi positivi; essa si accontenta di scavargli con poliziesca tenerezza la fossa, ogniqualvolta esso sgorga alla superficie del paese ufficiale. Lo Stato inglese, ben lungi dall’andare oltre le misure di amministrazione e beneficenza, è sceso assai al di sotto di esse. Esso ormai non amministra più che ‘quel’ pauperismo che possiede la disperazione di lasciarsi afferrare e imprigionare” [Karl Marx, ‘La legge sui poveri’ (in) Karl Marx, a cura di Cosimo Perrotta, ‘Malthus’, Roma, 1979]