“C’è un punto dell’interpretazione marxiana di Smith, che qui vogliamo nominare perché introduce bene il discorso su quella ripresa di pensiero economico classico, e quindi anche smithiano, che è stata determinata recentemente dall’opera di Piero Sraffa. Si tratta della critica al concetto del profitto come detrazione dal prodotto del lavoro. Certamente questo concetto è all’origine della categoria marxiana del plusvalore; tuttavia, per condurre al plusvalore di Marx, la “detrazione” di Smith dev’essere liberata da un’ambiguità. Se si definisce il profitto come detrazione, dice Marx, si implica che il lavoro debba “avere propriamente come salario il suo stesso prodotto, e il salario essere eguale al prodotto, ossia il lavoro non essere lavoro salariato e il capitale non essere capitale”. In altri termini, per Smith, continua Marx, “il solo ad avere una giustificazione economica è propriamente il salario, perché è elemento necessario dei costi di produzione. Profitto e rendita sono soltanto detrazioni dal salario, arbitrariamente estorte nel processo storico del capitale e della proprietà fondiaria, e legalmente, non economicamente giustificate”. Questa critica (che sta poi alla base della critica marxista al socialismo utopistico con la sua pretesa che il salario corrisponda al “prodotto integrale” del lavoro) implica un giudizio preciso, e cioè che Smith, nel considerare “il lavoro come creatore di valore”, intende il lavoro stesso come lavoro ‘naturale’, ossia “come valore d’uso, come produttività per sé stante, capacità naturale umana in generale”, e non come lavoro nella sua determinatezza storica specifica, cioè come lavoro reso astratto dalla sua separazione dal lavoratore, e la cui “produttività” non è altro che la sua assunzione nel capitale, nel quale si trovano incorporate la scienza e l’organizzazione. Il punto è evidentemente decisivo, sia sul terreno teorico sia sul terreno politico. Se le cose stanno al modo di Smith, la questione dell’emancipazione del lavoro è tutta spostata sul terreno giuridico di una diversa proprietà dei mezzi di produzione; se le cose stanno al modo di Marx, la questione è molto più radicale, e riguarda la riappropriazione da parte del lavoro delle qualità umane da cui esso è separato nelle condizioni di lavoro salariato. La decisione tra l’una e l’altra di queste due alternative dipende dal modo in cui si concepisce il fatto stesso da cui la scienza economica comincia, cioè lo scambio. Per Smith lo scambio è la realizzazione della natura umana, e la società mercantile è la forma perfetta del rapporto sociale. Per Marx, al contrario, lo scambio è l’isolamento reciproco dei produttori, la perdita del carattere sociale del lavoro, e il recupero della società attraverso la sottomissione di tutti alla legge della cosa, al meccanismo impersonale del mercato come “rapporto naturale esterno agli individui, indipendente da loro”, che produce necessariamente la riduzione a merce dello stesso lavoro e la sua sottomissione al capitale, nel quale tutta la “produttività” viene trasferita” [dal Contributo critico di Lucio Colletti] [(in) Adam Smith, contributi critici di Lucio Colletti, Claudio Napoleoni, Paolo Sylos Labini, ‘La ricchezza delle nazioni’, 1995]