“Proudhon, in ultima istanza, ritiene di poter distruggere il “profitto”, ossia l’attributo fondamentale della proprietà borghese (“il reddito senza lavoro”), continuando però, a lasciare in piedi l’istituto della proprietà stessa (“Tutto il segreto consiste dunque – scrive Proudhon – nel far sì che il profitto sia trattenuto circolarmente dagli altri e ritorni al luogo di partenza, che cioè i cittadini lavorino tutti gli uni per gli altri e, di volta in volta spogliati e rimborsati, ricevano un beneficio eguale alla ritenuta che subiscono”). Cerroni (1) avverte, giustamente, che il “limite” di fondo della concezione teorica di Proudhon sta nel suo porsi “sul terreno della critica dell’esclusivismo proprietario in nome delle proprietà individuali”, e di non riuscire, quindi, a risolvere le “antinomie” radicate nell’istituto della proprietà privata stessa (p. XXXIII): “limite” teorico che, in termini polemici, Marx individua nella pretesa di Proudhon (derivatagli da quell'”anticaglia hegeliana”, ossia dalla errata interpretazione della dialettica) di voler sopprimere il “lato cattivo” e salvare il “lato buono” del sistema proprietario, senza avvedersi che proprietà privata e lavoro salariato, lungi dall’essere due “principi” contrapposti, sono, invece, due “istituti” economici strettamente interconnessi del sistema capitalistico (in questo contesto acquista rilievo, appunto, la critica marxiana fondata sulla tesi che “salario e proprietà privata sono identici” (…))” [Carlo Violi, Il socialismo di Proudhon] [(in) ‘Critica marxista, anno 7, n° 1 gennaio-febbraio 1969] [(1) prefazione di Umberto Cerroni all’edizione di ‘Che cos’è la proprietà’ di Proudhon (Laterza, 1967)]