“Londra, venerdì 28 gennaio 1853. Il «Times» (134) del 25 gennaio sotto il titolo “Il dilettanti dell’impiccagione” fa le seguenti considerazioni: «È stato spesso osservato che nel nostro paese un’esecuzione pubblica è in genere immediatamente seguita da casi di suicidio o di morte accidentale per impiccagione, come conseguenza del potente effetto che ha l’esecuzione di un noto criminale su una mente malata o immatura». Tra i vari casi citati dal «Times» per illustrare questa osservazione si trova quella di un pazzo di Sheffield che, dopo aver parlato con altri pazzi dell’esecuzione di Barbour, mise fine alla propria esistenza impiccandosi. Un altro caso analogo riguarda un ragazzo di quattordici anni. Nessuna persona dotata di buon senso sarebbe in grado di indovinare quale teoria intenda dimostrare l’enumerazione di questi fatti, giacché si tratta niente di meno che dell’apologia scoperta del boia, mentre la pena di morte viene esaltata come ultima ratio (ultimo mezzo) della società. E questo in un articolo di fondo del «giornale guida»! (…). Questa statistica, come ammette il «Times» dimostra che l’esecuzione di criminali è seguita non soltanto da suicidi ma anche da omicidi tra i più orrendi. Stupisce che nell’articolo in questione non sia formulato un solo argomento o pretesto che suffraghi la barbara teoria ivi formulata; e sarebbe molto difficile, se non del tutto impossibile, stabilire un qualsiasi principio sul quale possa fondarsi la giustezza o l’opportunità della pena capitale in una società che si vanta del grado di civiltà raggiunto. In genere, la punizione viene difesa come un mezzo per migliorare o per intimorire. Ora, quale diritto avete voi di punire me per migliorare o per intimorire altri? E, inoltre, c’è la storia, c’è una cosa che si chiama statistica, che stanno a provare con la massima chiarezza che sin dai tempi di Caino il mondo non è mai stato migliorato o intimorito dalla punizione. Semmai, è vero il contrario. Dal punto di vista del diritto astratto, c’è solo la teoria della punizione che riconosce dignità umana in astratto, ed è la teoria kantiana, particolarmente nella più rigida formulazione che le ha dato Hegel. Hegel infatti dice (334): «La pena è il ‘diritto’ del criminale. È un atto della sua volontà. La violazione del diritto è stato proclamata dal criminale come diritto suo proprio. Il suo delitto è la negazione del diritto. La pena è la negazione di questa negazione, e di conseguenza un’affermazione di diritto, sollecitato e imposto al criminale dal criminale stesso». C’è senza dubbio un che di capzioso in questa formulazione, in quanto Hegel anziché considerare il criminale come il mero oggetto, lo schiavo della giustizia, lo eleva al rango di essere libero e capace di autodecisione. Ma, se guardiamo più a fondo, ci accorgiamo che anche qui, come in molti altri casi, l’idealismo tedesco non ha fatto altro che dare una sanzione trascendente alle norme della società vigente. Non è forse un’illusione sostituire all’individuo, con i suoi motivi reali, con le multiformi circostanze sociali che premono su di lui, l’astrazione della «libera volontà», una tra le molte qualità dell’uomo al posto dell’uomo stesso? Questa teoria, che considera la punizione come il risultato della volontà stessa del criminale, è soltanto un’espressione metafisica del vecchio ius talionis (legge del taglione): occhio per occhio, dente per dente, sangue per sangue. Fuor di metafora, senza ricorrere a parafrasi, la punizione non è altro che uno dei mezzi con i quali la società si difende contro chi infrange le condizioni della sua esistenza, di qualsiasi natura esse siano. E poi, che società è mai quella che a sua difesa non conosce nessuno strumento migliore del boia e che eleva attraverso «il giornale guida per eccellenza» la brutalità a legge eterna?” (pag 518-518) [Karl Marx, ‘La pena capitale – I libelli del signor Cobden – Misure della Banca d’Inghilterra’, New York Daily Tribune, 18 febbraio 1853 (in) Karl Marx Friedrich Engels, Scritti, agosto 1851-marzo 1853′ (333), Edizioni Lotta Comunista, Milano, 2021] [(134) La lettera fu scritta da Engels per iniziativa di Marx e inviata da Marx alla redazione del “Times”. Engels scrisse una lettera analoga anche per la redazione del “Daily News”. A causa dell’ostilità contro i membri della Lega dei comunisti, le redazioni dei due giornali non pubblicarono i testi. la lettera (nella stesura destinata al “Times”) è qui riprodotta seguendo l’abbozzo riportato sul retro della lettera di Engels a Marx del 28 gennaio 1852 – “The Times”, il maggior quotidiano inglese di tendenza conservatrice. Fu fondato a Londra il 1° gennaio 1785, con il nome di “Daily Universal Register” dal 1° gennaio 1788 si chiamò “The Times”; (333) Il presente è il primo articolo scritto da Marx in lingua inglese; (334) L’esposizione compendia in forma semplificata Hegel “Grundlinien der Philosophie des Rechts”, cit., pp. 136 e 139]