“E Parigi, nella prima metà degli anni Quaranta (Marx vi abitò tra la fine del 1843 e l’inizio del 1845), fu a questo proposito un laboratorio irripetibile, con la ‘bohème’ letteraria e il pensiero politico radicale in reciproco contatto: rapporti sempre più stretti e sempre provvisori avvicinavano infatti tra loro, in una sorta di cosmopolitismo ‘melting pot’ intellettuale, persone come gli esuli russi e quelli tedeschi, come George Sand e Heine, Proudhon e Lamennais, Herzen e Bakunin, Cabet e Leroux, Blanc e Considerant, Flora Tristan ed Engels, Senza dimenticare la presenza sotto questo aspetto più labile, e pur non senza importanza, di personalità come Musset, Liszt, Hugo, Delacroix, Turgenev, Berlioz, Gauthier, Wagner, e gli stessi Lamartine e Tocqueville (14). Tra tutti costoro, e tra molti altri ancora, che si emozionavano per i polacchi, per gli italiani, per gli irlandesi, per i liberali svizzeri o spagnoli, e che leggevano avidamente cronache e resoconti sul sistema politico americano e sulle condizioni di vita della classe operaia inglese, la parola «comunismo», non più proibita, circolava ora vorticosamente. Era diventata quasi una moda, un oggetto di studio, un’espressione di ciò che poi si chiamerà il «movimento reale», una causa di snobistico malumore e di paura più o meno inconfessata, un’occasione di brividi, una discesa intellettuale o etica negli abissi della stratificazione sociale, uno strumento di predicazione a fianco degli indigenti e dei sofferenti, una promessa di redenzione per i medesimi, ma anche, citando Marx, una passione del cervello e un cervello della passione” (pag 48) [Bruno Bongiovanni, ‘La caduta dei comunismi’, Garzanti, Milano, 1995] [(14) Cfr. Isaiah Berlin, ‘Karl Marx’, La Nuova Italia, Firenze, 1994]