“«Feudalesimo» è una parola che non sitrova nelle fonti coeve alla nascita del fenomeno. Il termine venne coniato nel Settecento nell’ambito culturale illuministico e da quel momento in avanti è stato impiegato dagli storici in modi diversi e per indicare realtà di diversa natura. Le definizioni che nell’ultimo secolo e mezzo sono state date di «feudalesimo» sono state riassunte da Chris Wickham in tre categorie di fondo: la nozione risalente a Karl Marx, che identifica nel feudalesimo uno specifico modo di produzione; l’immagine delineata da Marc Bloch, che definì «società feudale» l’intera civiltà europea dei secoli X-XIII; una più ristretta definizione giuridica, legata alle norme che regolavano le relazioni vassalatico-beneficiarie. La parola «feudo» trae origine dall’antico germanico ‘fihu’, che probabilmente significava «gregge, bestiame» – come l’odierno tedesco ‘Vieh’ – e che ben presto assunse il medesimo significato del tardo latino ‘beneficium'” (pag 106-107). “Fu un economista inglese, Thomas Robert Malthus, alle prese con il problemi causati delle primissime fasi della rivoluzione industriale a dare una prima interpretazione, sia pure indiretta, alla crisi del Trecento. Il problema che lo tormentava era quello della prolificità dei ceti sociali più bassi, verso i quali, a suo avviso, non bisognava avere alcun atteggiamento caritativo. In un suo celebre scritto (‘Saggio sul principio di popolazione’, 1798) egli mise in risalto come la popolazione tenda ad aumentare in progressione geometrica (…) mentre i mezzi di sostentamento crescono in progressione aritmetica (…). Alcuni studiosi hanno creduto di poter applicare i fondamenti dell’analisi di Malthus alla crisi del Trecento. In particolare lo storico tedesco Wilhelm Abel e lo storico inglese Michael Postan hanno proposto di leggere la crisi del Trecento e la catastrofe demografica causata dalla peste come un evento complessivamente positivo per la storia economica europea, che avrebbe permesso di riportare l’equilibrio tra livello demografico e capacità produttiva. Per questa loro posizione, Abel, Postan e altri storico che hanno assunto posizioni analoghe vengono definiti «neomalthusiani». (…) Queste posizioni si sono spesso confrontate con quelle di storici di matrice marxista, per i quali i ‘trends’ demografici devono essere spiegati a partire dall’analisi delle strutture economiche. Sono infatti i rapporti economici, i «modi di produzione», a caratterizzare secondo Karl Marx le singole epoche storiche. Nei suoi lavori di analisi storica egli individuò quattro modi di produzione che avrebbero caratterizzato la società nel suo percorso evolutivo: asiatico, schiavistico, feudale, capitalistico. La crisi del Trecento si sarebbe manifestata per Marx durante il lungo periodo di transizione tra il modo di produzione feudfale e quello capitalistico, caratterizzato dall’ascesa della borghesia come classe egemone. Nel secondo dopoguerra alcuni storici di ispirazione marxista hanno aperto un ampio dibattito sulla «fase di transizione al capitalismo» che ha coinvolto anche studiosi di altra formazione” (pag 240-241). “In Germania si ripresero e si portarono a conseguenze estreme suggestioni presenti già in alcuni pensatori illuministi quali Justus Moser, che aveva valorizato la «barbarie vigorosa» delle popolazioni germaniche contrapponendola alla mollezza dei latini del basso impero. Con i filosofi romantici si attuò nella cultura tedesca un’autentica «svolta nazionalistica» (Sergi): contro il razionalismo francese si esaltarono la solidarietà, la poesia, la fede e la bellezza delle primitive popolazioni germaniche, abusivamente presentate come etnia omogenea, portatrice di valori uniformi. Pensatori come Herder, Novalis e Schiller esaltarono lo spirito comunitario di tale antiche popolazioni; Maurer e gli stessi Marx e Engels, individuarono alla base delle strutture sociali di epoca medievale una sorta di «comunismo primitivo» dei Germani” (pag 273). “Vi sono – come ci ha insegnato lo storico francese Fernand Braudel – tempi diversi per la politica (che si muove con rapidità), per l’economia (che ha ritmi più lunghi), per i modi di vita quotidiana (che cambiano più lentamente). Jacques Le Goff, ponendosi da un punto di vista antropologico oltre che economico e sociale, ha parlato di un «lungo Medioevo» durato fino alla rivoluzione industriale del XVIII secolo (ripercorrendo così, in qualche modo, l’immagine del Medioevo «feudale» proposta da Marx, e prima di lui da Voltaire. Tale prospettiva, che dilata il Medioevo fino a tutta l’età moderna, è esattamente rovesciata rispetto a quella che – come abbiamo visto – restringeva il Medioevo ai «secoli bui» del V-X secolo. Guy Bois da parte sua fa ‘cominciare’ il Medioevo più o meno verso il Mille, quando cessa definitivamente il modo di produzione «antico» basato sul lavoro degli schiavi. In analisi come queste, che citiamo solo a titolo di esempio, il Medioevo si restringe, si allunga, si sposta (…)” (pag 277) [Massimo Montanari, ‘Storia medievale’, Editore Laterza, Roma Bari, 2013]