“Quanto a Smith, come la borghesia in genere nel suo periodo rivoluzionario, egli ha considerato tutte le attività non economiche della società come ‘faux frais’ della produzione, che vanno ridotti – in nome dello sviluppo delle forze produttive – al minimo strettamente necessario. (È evidente l’affinità di queste concezioni con le opinioni prima citate di Ricardo). Di conseguenza tutti i grandi economisti mettono – con cinismo rivoluzionario – sullo stesso piano le varie forme del lavoro improduttivo, Marx cita per esempio le seguenti considerazioni di Adam Smith: «Essi sono i servitori del pubblico e vengono mantenuti da una parte del prodotto annuale dell’industria di altre persone… Alla stessa classe appartengono ecclesiastici, giuristi, medici, dotti di ogni tipo, attori, buffoni, musicisti, cantanti, ballerine ecc.». Marx commenta ora come segue queste considerazioni di Smith: «Questo è il linguaggio della borghesia ancora rivoluzionaria, che non si è ancora sottomessa l’intera società, stato ecc. Queste occupazioni trascendenti, anticamente venerabili, sovrano, giudici, ufficiali, preti ecc., la totalità dei vecchi ceti intellettuali che essi producono, i loro dotti, maestri e preti, vengono equiparati ‘economicamente’ allo stuolo dei loro lacchè e buffoni, come essi e i ricchi oziosi (nobiltà terriera e capitalisti oziosi) li mantengono. Essi non sono che servitori del pubblico, come gli altri sono servitori loro. Essi vivono del prodotto dell’industria di altri, e debbono quindi essere ridotti al minimo indispensabile» (1). Questo chiaro punto di vista rivoluzionario, che ha per contenuto l’esigenza – proclamata più tardi da Ricardo – dello sviluppo delle forze produttive ad ogni costo, si modifica presso gli ideologi della borghesia, dopo che questa, per lo più sulla base di vari compromessi, ha conseguito il potere nello stato, o almeno l’influsso decisivo sul potere statale. Allora sorge quel punto di vista «colto» che tende a giustificare ideologicamente tutte le attività della società capitalistica che siano utili o gradite alla borghesia, estendendo anche ad esse il concetto di produttività, considerando anche il loro lavoro come produttivo in senso economico. Per questa concezione, in cui comincia la confusione dei chiari e rigorosi principi dell’economia classica, la sua trasformazione in un’apologetica ad uso borghese, Marx non ha che amarissimo scherno. Egli cita la seguente affermazione di Nassau Senior: «Secondo Smith il legislatore degli ebrei era un lavoratore improduttivo», e aggiunge: «Era Mosè d’Egitto o Moses Mendelssohn? Certo Mosè avrebbe detto grazie al signor Senior di essere un «lavoratore produttivo» in senso smithiano. Questa gente è talmente in balia delle sue idee fisse borghesi che penserebbe di offendere Aristotele o Giulio Cesare chiamandoli «lavoratori improduttivi». Questi avrebbero già considerato come un’offesa il titolo di «lavoratore» (2). L’atteggiamento di Hegel è rivolto apparentemente tanto contro Smith quanto contro i suoi critici. Ma una versa antitesi sussiste solo fra lui e questi apologeti «colti» della borghesia” (pag 568-569) [György Lukacs, ‘Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista’, Giulio Einaudi, Torino, 1960] [(1) Theorien über den Mehrwert, cit., I, p. 405 (trad. it., I, p. 378; (2) Idem, cit., I, p. 387 (trad. it., I, p. 362]