“Queste riflessioni sono originate dalla lettura di due saggi ineguali dedicati al fascismo e alla destra da Antonio Capizzi, ‘Alle radici ideologiche dei fascismi’, e da Furio Jesi, ‘Cultura di destra’. Si tratta, com’è noto, di due studiosi di diversa provenienza filosofica e accademica. Capizzi insegna filosofia teoretica ed è autore di numerosi saggi di storia della filosofia; Jesi è uno studioso del mito e uno storico della letteratura tedesca. Se il primo dunque è interessato a un discorso di demistificazione ideologica, fondato storicamente e teoricamente, dei valori e delle idealità etico-politiche borghesi, il secondo è attento a rinvenire dieto i ‘miti’ – non esclusi quelli che s’insinuano nei documenti giornalistici e lettererari – la riprova di un progressivo svuotamento interno di temi culturali classici che, da armi dialettiche di emancipazione, diventano innocui oggetti di lusso, funzionali al progetto borghese di dominio. (…) Alla possible obiezione (…) che la rottura del movimento operaio con ‘tutta’ la borghesia ha sempre favorito l’ascesa del fascismo, determinando quindi ogni volta la sconfitta del proletariato, Capizzi risponde che “Se per il mondo liberale il fascismo è una orrenda catastrofe, per un modo di pensare rivoluzionario esso è una ‘vittoria del proletariato’. Con il fascismo cade infatti l’ultima ‘aureola’ sopravvissuta alla rivoluzione borghese, quella che circonda il capo del ‘libre citoyen’ e cioè l’aureola liberale. Il fascismo avalla nei fatti le analisi di Marx, svelando la violenza contenuta nel capitalismo come tale e costringendolo a mostrarsi quale veramente è: il fascismo è dunque l’estrema e più valida verifica del marxismo, l’avverarsi della sue previsioni politiche”. Ci si trova dinanzi a uno stile di pensiero che, come può vedersi, ha rinunciato del tutto alla discussione razionale: i protagonisti concreti della storia si dissolvono in puri concetti astratti, sicché la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro non ha più nulla di reale, ma riguarda unicamente una dubbia gara di maggior preveggenza. Senonché occorre pur ricordare all’autore che quanti affermano essere stato il fascismo un’orrenda catastrofe ‘anche’ per il proletariato, non si riferiscono alla battaglia dei concetti, ma agli operai, ai contadini, agli intellettuali di sinistra torturati, deportati, perseguitati, uccisi nelle guerre civili e nella guerra mondiale; si riferiscono al lento lavoro di ricostruzione post-bellica, ai sacrifici immani, e non solo salariali, che esso ha comportato. Per Capizzi, che si muove nell’orizzonte etico del dottrinario del Komintern, al contrario, c’è stata ‘vittoria’, perché il gioco politico comunque è divenuto ‘più chiaro’, “è uscito allo scoperto”: quanto peggio, tanto meglio, quindi, non importa a quale prezzo. Ma la lotta per il potere è divenuta veramente più chiara? In vero, nessuno finora aveva osato attribuire a Marx il merito intellettuale di aver previsto il fascismo; anzi s’era sempre detto che non solo la rivoluzione bolscevica, ma anche quella fascista, erano, in un certo senso “contro il Capitale”, essendo difficilmente inquadrabili nelle solide categorie ottocentesche del materialismo storico e dialettico. Per far rientrare il fenomeno totalitario in questione tra quelli previsti da Marx, occorre in primo luogo procedere a un’operazione di sconcertante superficialità: l’identificazione, pura e semplice, di violenza e fascismo; e in secondo luogo, ascrivere al materialismo storico il dubbio merito di una previsione smentita da tutta la storia contemporanea (e dallo stesso Engels nei suoi ultimi scritti): il progressivo, inevitabile, ricorso alla violenza da parte del capitalismo. Certo è che s’è verificato il contrario: la sempre minore disponibilità dello stato democratico borghese ad armare gli apparati di repressione poliziesca per riportare l’ordine nelle fabbriche e gli scioperanti al lavoro. (…) Come Marx aveva ritenuto esemplari, nella storia del mondo borghese e del suo inevitabile superamento dialettico, l’economia politica inglese, il pensiero illuministico e rivoluzionario francese e la filosofia classica tedesca, così Capizzi delimita, anch’egli, il suo campo d’indagine, per non dover perdere troppo tempo con vicende storiche e politiche meno esemplari. Così, la storia politica francese nell’età orleanistica, il pensiero conservatore e nazionalsocialista tedesco, le vicende italiane del primo dopoguerra e le battaglie culturali del nazionalismo sono le uniche “stazioni”, in cui vale la pena di sostare in questa fenomenologia dello spirito borghese. (…) Nel discorso che Capizzi cerca “di portare avanti in qualche modo”, i veri borghesi, quelli che hanno realmente, nel bene e nel male, improntato allo spirito liberale le istituzioni della società civile e della società politica – gli anglosassoni, per l’appunto – hanno un’importanza assai relativa. E poco importa se Marx, che ricercava la borghesia non tra le brume prussiane, dove vecchi junker come Spengler rimpiangevano le antiche civiltà aristocratiche, né tra la piccola borghesia italiana che aveva visto nel Rinascimento la “grande promessa”, ma dove realmente si trovava, cioè tra gli altiforni e i corridoi del Crédit Mobilier, nella sua strategia rivoluzionaria, assegnava all’Inghilterra industriale la leadership della rivoluzione socialista. A volte bisogna tradire la lettera, per salvaguardare lo spirito del messaggio. Comunque, pur ammettendo la legittimità del criterio selettivo adottato da Capizzi, è almeno rigorosa e critica la chiave di lettura? In realtà, “la tesi sostenuta con metodo storico” consiste solo nel mettere a confronto, ogni volta che entrano in gioco fatti storici reali, le analisi di Marx con quelle degli storici contemporanei e non, e nel dare sistematicamente ragione al primo e torto ai secondi, quando le argomentazioni non coincidono. Così Tocqueville, che può ben considerarsi il Marx del liberalismo classico, viene citato con simpatia non per la ‘Democrazia in America’ – ancor oggi il testo più letto dagli studiosi del pluralismo – ma per i giudizi sulla borghesia affaristica del suo tempo, che concorderebbe con quelli di Marx (infatti, laddove l’uno fa riferimento alla “vanità della classe media”, l’altro parla, più direttamente, di “frode svergognata”)” (pag 19-36) [Dino Cofrancesco, ‘Per un’analisi critica della destra rivoluzionaria. Dal nazionalismo al fascismo’, Ecig, Genova, 1984]