“I termini nei quali Buonarroti descrive quest’avanguardia rivoluzionaria non lasciano dubbi sulle sue origini culturali: «Questo difficile compito può spettare solo a cittadini saggi e coraggiosi che, presi da forte amore per la patria e per l’umanità, avendo scandagliato a lungo le cause dei mali pubblici, si sono liberati dai pregiudizi e dai vizi comuni, hanno superato la mentalità dei loro contemporanei, e disprezzando l’oro e i privilegi volgari, hanno riposto la felicità nel rendersi immortali assicurando il trionfo dell’eguaglianza. Forse è necessario, al sorgere d’una rivoluzione politica, anche per rispetto all’effettiva sovranità del popolo, occuparsi non tanto di raccogliere i voti della nazione, quanto di far cadere, il meno arbitrariamente possibile, l’autorità suprema in mani saggiamente e fortemente rivoluzionarie» (188). L’idea dell’autorità provvisoria anteriore all’ordine costituzionale nasce quindi dall’incontro di ben precisi punti di riferimento teorici con le esperienze rivoluzionarie, specialmente quelle dell’anno III (187). Questa idea è stata comunque uno degli aspetti del babuvismo al quale gli storici hanno maggiormente rivolto la loro attenzione perché, nell’interpretazione che ne diede Buonarroti, essa venne trasmessa ad alcune correnti socialiste ottocentesche e da queste è passata ad assumere una posizione centrale nel marxismo-leninismo. Ecco quanto a tal proposito scrive il Mazauric: «L’influenza maggiore di Babeuf deve essere ricercata nell’aver fornito alla rivoluzione popolare l’idea di istituire dopo la vittoria una dittatura provvisoria. Il ruolo di questo governo di transizione sarà d’assicurare definitivamente le basi del nuovo regime sociale e di permettere il passaggio graduale al regno della società senza classi, nella quale si avrà il deperimento dello Stato» (188). E altrove il Mazauric scrive che «questa nozione penetrò nel movimento operaio e comunista posteriore. Marx la scoprì nel 1842 leggendo il racconto di Buonarroti e seppe ritenerne l’essenziale elaborando la teoria della dittatura del proletariato. La comune di Parigi ne fece esperimento e Lenin, meditando com’è noto su questo vasto retaggio collettivo, vi trovò materia di riflessione per il problema dello Stato» (189). Gli stessi concetti vengono ribaditi, tra gli altri, dal Tonnesson: «Attraverso Blanqui, i loro [dei babuvisti] concetti passarono nel marxismo nella forma della dittatura del proletariato. È interessante notare che Bernstein criticò Marx per il fatto di non essersi liberato dal blanquismo. L’essenza di esso, secondo Bernstein, non stava in ciò che Marx aveva scartato, cioè le piccole società segrete e i metodi di cospirazione, ma nella fede nel potere creativo dello Stato rivoluzionario (…). E la teoria di Lenin sull’ ‘élite’ diede nuovo impulso a qualche elemento centrale di babuvismo e del blanquismo: l’idea che un’unione di uomini scelti e selezionati dovesse essere il nucleo-guida attivo della rivoluzione» (190). Il Tonnesson è tuttavia molto più cauto degli altri studiosi, notando che «la storia delle idee non può essere ridotta a un sistema genealogico» (191): idee simili possono benissimo essere derivate da fonti comuni o da esperienze analoghe. Non qui il luogo per affrontare una discussione sulla possibile influenza della teoria babuvista dell’autorità provvisoria sulla teoria marxiana della dittatura del proletariato. Quella teoria faceva parte di un complesso di esperienze politiche rivoluzionarie che Marx conosceva bene e che poterono avere una certa influenza sulla formazione del suo pensiero: ma non ci sembra possibile affermare con certezza che egli avesse coscienza del suo eventuale debito nei confronti dei babuvisti. Abbiamo già ricordato quale sia stata la valutazione marxiana del babuvismo, citando in tal senso alcuni dei testi più significativi nei quali Marx ne parla: non abbiamo mai trovato richiami espliciti alla teoria dell’autorità provvisoria. Marx lesse, è vero, l’opera di Buonarroti (non nel 1842, come ritiene il Mazauric, bensì nel 1844 (192)) ma insieme ad essa lesse anche numerose opere sulla rivoluzione francese, in particolare sul periodo della Convenzione, del quale aveva intenzione di scrivere la storia (193)” (pag 270-274) [Demetrio Neri, ‘Babeuf, ideologia d’una rivoluzione mancata’, Editrice La Libra, Messina, 1973] [(188) C. Mazauric, ‘Babeuf et la conspiration pour l’égalité’, cit., p. 236; (189) C. Mazauric, ‘Introduzione’ a Babeuf, ‘Il Tribuno del popolo’, cit., p. 56; (190), K. Tonnesson, ‘The Babouvists… art. cit., p. 74; (191) Ibidem. A tal proposito corre l’obbligo di citare J.L. Talmon, ‘Le origini della democrazia totalitaria’, trad. it., Bologna, 1967, il quale ha considerato l’esperienza babuvista come la “cristallizzazione” della democrazia “totalitaria”, nata, nello stesso tempo e sugli stessi presupposti di quella liberale, nel corso del XVIII secolo. Ambedue i tipi di democrazia affermano il valore della libertà (…); (192) La lettura di Buonarroti avvenne a Parigi, insieme a quella delle ‘Memorie ‘ di Levasseur de la Sarthe, della ‘Storia parlamentare’ di Buchez-Roux, ed altre opere. Cfr. W. Markov, ‘Babeuf, le babouvisme et les intellectuels allemands’, in ‘Colloque’, cit. p. 177, n. 10. Nei quaderni di estratti del periodo 1839-1843 non si trovano cenni a una tale lettura; (193) Cfr. J. Bruhat, ‘La révolution française et la formation de la pensée de Marx’, “Annales historiques de la révolution française’, 1966, p. 158. Ed anche A. Cornu, ‘K. Marx, la révolution française et Robespierre’, in ‘Maximilien Robespierre. Contribution à l’occasion de son bicentenaire’, Berlino, 1958, p. 560, n. 13]
- Categoria dell'articolo:Nuove Accessioni
- Articolo pubblicato:28 Maggio 2025