“Per uno strano paradosso, i «valori» sui quali è chiaramente fondato il giudizio che il marxismo reca intorno all’esperienza politica sono derivati proprio da quell’interpretazione dialettica che Marx mutuava da Hegel, applicandola a quella realtà sociale in cui già Hegel e con lui tutta la filosofia politica dell’età romantica avevano additato, contro l’individualismo dell’età precedente, il sostrato concreto dello Stato. «Capovolta», la dialettica hegeliana diventa, com’è noto, per Marx la legge immanente, il ritmo stesso della realtà; ed offre quindi la spiegazione delle «contraddizioni», ossia dei conflitti inesorabili attraverso i quali si afferma il predominio dell’uomo sull’uomo. Lo «Stato» non è altro che il risultato della «lotta di classe». «La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta di classi». In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra». «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese». Così si legge nel ‘Manifesto dei Comunisti’ del 1848; ma già in uno scritto di pochi anni anteriore, Marx ed Engels avevano affermato che «lo Stato… non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità; tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi… Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni». (…) Tale interpretazione e tale predizione sono già contenute nel ‘Manifesto’; esse saranno riprese e svolte nelle opere che espongono la dottrina marxista nella sua forma più matura. Lo Stato, scrive Engels, è un prodotto storico, «della società giunta ad un determinato stadio di sviluppo»; ma è anche ad un tempo l’indicazione della dialettica immanente nella storia, in quanto «è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con sé stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare».. La risoluzione di tale contraddizione è nella conquista del potere da parte del proletariato e nella trasformazione di tutti i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Con tale conquista e con tale trasformazione soltanto potranno essere cancellate le differenze e risolti gli antagonismi di classe – e di conseguenza verrà meno anche «lo Stato come Stato». Lo Stato non sarà «abolito»: scomparirà, con tutto il suo apparato di oppressione e di repressione. Per la prima volta nella storia gli uomini saranno pienamente padroni del loro destino, e si effettuerà «il passaggio dell’umanità dal regno della necessità in quello della libertà». Qui esce propriamente dal campo della descrizione per entrare in quello della valutazione: la diagnosi cede il posto a una terapia, e questa all’annuncio di una totale rigenerazione. Alla previsione che l’avvento della società senza classi è il risultato ineluttabile della dialettica storica si sovrappone l’imperativo di realizzarla: «compiere questo atto di redenzione del mondo: ecco il compito sociale del moderno proletariato». Invero, il valore di fine attribuito al raggiungimento della libertà dà a questo imperativo un significato assoluto, categorico. Ma ciò non toglie che il regno della libertà è lontano, ed i rapporti sociali, oggi come oggi, sono determinati da altre e diverse leggi, da altri e diversi imperativi. Il regno della necessità è il regno della forza” (pag 79-81) [Alessandro Passerin d’Entreves, ‘La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione’, Giappichelli editore, Torino, 1962]