“Il signor Proudhon è così lontano dalla verità che trascura ciò a cui prestano attenzione perfino gli economisti profani. Quando parla della divisione del lavoro non ritiene necessario menzionare il ‘mercato’ mondiale. Bene. Eppure la divisione del lavoro nei secoli XIV e XV, quando non c’erano ancora colonie, quando ancora l’America non esisteva per l’Europa, e l’Asia Orientale esisteva per l’Europa soltanto per tramite di Costantinopoli, non doveva forse essere fondamentalmente diversa da quella che era nel XVII secolo, quando le colonie erano già sviluppate? E questo non è tutto. L’organizzazione interna delle nazioni con tutte le loro relazioni internazionali non è forse l’espressione di una particolare divisione del lavoro? E queste non debbono forse cambiare quando cambia la divisione del lavoro? Il signor Proudhon ha capito così poco il problema della divisione del lavoro che egli non menziona mai neanche la separazione tra città e campagna, che in Germania, per esempio, si determinò tra il IX e il XII secolo. Cosicché per il signor Proudhon, che non ne conosce né l’origine né lo sviluppo, questa separazione diventa una legge eterna. In tutto il suo libro egli parla come se questa creazione di un modo particolare di produzione si perpetuasse fino alla fine dei tempi. Tutto quello che il signor Proudhon dice sulla divisione del lavoro non è che un sommario, e per di più un sommario molto superficiale ed incompleto, di quel che Adam Smith e mille altri hanno detto prima di lui. La seconda evoluzione è la ‘macchina’. Il legame tra la divisione del lavoro e la macchina è del tutto mistico per il signor Proudhon. Ogni specie di divisione del lavoro ha avuto i suoi specifici strumenti di produzione. Tra la metà del secolo XVII e la metà del XVIII, per esempio, non si faceva tutto a mano. C’erano delle macchine e anche molto complicate, quali telai, navi, gru, ecc. Così non vi è nulla di più assurdo che far derivare le macchine dalla divisione del lavoro in generale. Posso anche rilevare che il signor Proudhon, come non ha compreso l’origine della macchina, ne ha compreso ancor meno lo sviluppo. Si può dire che fino al 1825 – anno della prima crisi generale – la domanda di generi di consumo in generale è cresciuta più rapidamente che la produzione, e lo sviluppo della macchina è stato una conseguenza necessaria dei bisogni del mercato. Dal 1825, l’invenzione e l’applicazione della macchina sono state semplicemente il risultato della lotta tra i lavoratori e i datori di lavoro. E questo vale soltanto per l’Inghilterra. in quanto alle nazioni europee, grazie alla concorrenza inglese, esse furono trascinate ad adottare le macchine sia per il mercato interno che per il mercato mondiale. E infine nell’America del Nord l’introduzione della macchina fu dovuta sia alla concorrenza con gli altri paesi sia dalla mancanza di braccia e cioè alla sproporzione tra la popolazione dell’America del Nord e i suoi bisogni industriali. Da questi fatti potete vedere quale sagacia dispieghi il signor Proudhon quando evoca lo spettro della concorrenza come la terza evoluzione, l’antitesi della macchina! Infine, e in generale, è del tutto assurdo trattare la ‘macchina’ come una categoria economica sullo stesso piano della divisione del lavoro, della concorrenza, del credito, ecc. La macchina non è una categoria economica più di quanto lo sia il bue che tira l’aratro. L’applicazione delle macchine è uno dei fattori che determinano i rapporti dell’attuale sistema economico, ma il modo in cui le macchine sono utilizzate è cosa del tutto diversa dalle macchine stesse. La polvere rimane tale sia essa usata a ferire un uomo o a curarne le ferite” (pag 279-280) [Karl Marx, Lettera ad Annenkov, Bruxelles, 28 dicembre 1846, (in) Giulio Marcon, a cura, Il giovane Marx. La radice delle cose’, Jaca Book, 2021]