“Ai rimproveri che il Labriola gli muoveva per la sua pigrizia di letterato, vedendo l’amico e collaboratore non corrispondere alle sue speranze, Croce (6) poteva infatti rispondere che il suo apparente disinteresse pratico era in realtà «travaglio di pensatore a suo modo politico nella cerchia sua propria». Ed era un’obbiezione perfettamente giustificata, e che non si trattasse di un interesse superficiale, di una distratta curiosità di letterato, traspare anche dal fatto che egli, pur dopo aver chiarito la «fallacia» del materialismo storico come materialismo e come variante della hegeliana filosofia della storia, non si arrestò tuttavia a questa prima confutazione della dottrina, avvertendo il peso della «cocente esperienza storica» e della «visione della gran parte che l’economia ha nelle umane faccende»; che era poi un modo di risaldare il pensiero alla storia attraverso il recupero sia pure parziale della lezione di quegli anni cruciali dell’Europa nella loro espressione più attiva e violenta, forse anche la via per una più intera comprensione del De Sanctis, dapprima amato ma non inteso e poco apprezzato nella sua «temperata e squisita disposizione morale» (7). Tuttavia vi è qualcosa di poco persuasivo nel processo attraverso cui Croce, dopo aver divisato in un primo slancio d’entusiasmo un ritorno agli studi storici «armato di economia e di materialismo storico», non solo lasciò sfumare questo disegno così poco congeniale ma liquidò il pensiero stesso che lo aveva dapprima fortemente colpito e attratto. Voglio dire di quella critica piuttosto tortuosa e sofistica che egli mosse al «sopravalore», giustificato prima come un concetto morale e poi come la conseguenza di «un paragone ellittico fra un’astratta società lavoratrice assunta come tipo e una società capitale privato», della rivalutazione dell’economia pura e della scuola austriaca, delle incertezze infine dimostrate nel valutare l’apporto del marxismo alla ricerca storica, mai completamente chiarite e tuttavia in seguito considerate come un giudizio definitivo da rivedersi solo in un senso sempre più restrittivo. Labriola avvertiva bene ciò che vi era nel fondo di quei ragionamenti quando vi riscontrava «un presupposto formale, ossia un pregiudizio che si possa sapere più di quanto effettivamente si sa» e ammoniva l’amico: «Tu disputi contro te stesso per sapere che uso devi fare del marxismo, ma nn per sapere che cosa esso sia» (8), invitandolo a ricondurre alla loro radice storica i risultati di quella revisione che valeva solo a mostrare certe incongruenze del pensiero di Marx, ma non sapeva dir nulla intorno alla «novità del reale» che permetteva di render evidente agli occhi di molti le imperfezioni del marxismo (9). Era questa un’acuta definizione di un certo equivoco revisionista: non critica e neppure superamento, ma traduzione in una sorta di esperanto intellettuale fuori della storia e della geografia di un pensiero tutto impregnato di succhi storici; ma non erano queste le obbiezioni che potevano smuovere Croce dalla sua posizione puramente teoretica («formale», secondo Labriola); e se egli poteva aver ragione di difendere il suo atteggiamento speculativo dinanzi alle sollecitazioni politiche dell’amico, resta tuttavia alquanto ambigua la singolare riduzione della lezione marxista formulata nel 1919 nel ‘Contributo alla critica di me stesso’, come di un «fuoco a cui bruciò i l’suo’ astratto moralismo e apprese che il corso della storia ha il diritto di trascinare e schiacciare gli individui». Era una conclusione molto dubbia e ben poco marxista, ma assai prossima invece al revisionismo del Sorel e alla sua teoria della violenza, al suo odio contro ogni umanitarismo giacobino, e, recensendo appunto il soreliano ‘Système historique de Renan’ ed esponendone i miti della scissione e della rigenerazione delle società decadenti mediante l’ascesa violenta di uno strato dell’umanità ancora vergine e incorrotto dai veleni dell’intellettualismo, Croce vi ritroverà il carattere di un «ricorso» vichiano in cui la dialettica dei distinti sembra civettare con la mitologica immagine del salutare bagno di barbarie in cui la stanca civiltà ha bisogno di tanto in tanto di rituffarsi per ritemprare le sue energie (10)” (pag 219-221) [6) ‘Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia’; in appendice a : Antonio Labriola, ‘La concezione materialistica della storia’, Bari, Laterza, 1938; (7) ‘Contributo alla critica di me stesso’, Bari, Laterza, 1945, p. 16); (8) Che era press’a poco, lo stesso carattere che Croce ritrovava nella critica del Sorel, il quale rispondendo al Racca che gli chiedeva cosa egli avesse conservato del marxismo e quali fossero le sue idee sul socialismo, confessava di essere «imbarazzatissimo a rispondere; che, lavorando, come faceva, a dimostrare false ed errate teorie e tattiche man mano che l’occasione ve lo portava, non s’era mai chiesto che cosa, in questa sua non finita marcia di distruzione e correzione, lasciava dietro di sé» (“La Critica”, 1903, p. 227 e in ‘Conversazioni critiche’, Bari, Laterza, 1950, serie I, p. 284); (9) Vedi: ‘Come nacque…’, pp. 301, 311; (10) “La Critica”, 1907, pp. 317-330 e ‘Conversazioni critiche, cit., s. I, p. 306 sgg. In tal modo la dottrina del marxismo veniva ridotta, come in Sorel, al ruolo di un comodo arsenale da cui trarre argomenti contro l’invisa democrazia, il suo utopismo e il suo antistoricismo. (…)] [Enzo Ronconi, ‘Un dialogo che continua. (A proposito delle Terze pagine sparse di Benedetto Croce)’, Il Ponte, Firenze, n. 2, 1956]
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- Articolo pubblicato:1 Ottobre 2021