“Le critiche di esponenti del Comintern ai comunisti italiani si estesero soprattutto all’analisi del fascismo. In particolare, Giulio Aquila (Gyula Sas), comunista ungherese inviato in Italia, insisteva sul carattere di massa non effimero del fascismo, capace di suscitare un consenso popolare tramite la combinazione sincretica di socialismo e nazionalismo e persino di autonomizzarsi dalle élite capitalistiche (45). La nozione del carattere di massa del fascismo, in realtà, non era ignota all’ex gruppo ordinovista. Ne è testimonianza un rapporto di Palmiro Togliatti che non era giunto in tempo a Mosca per il Congresso del Comintern e che delineava un’interpretazione incentrata sulle debolezze dello Stato liberale italiano e sui tratti di originalità del fenomeno fascista, diversa da quella rigidamente classista di Bordiga (46). Tuttavia i nessi tra l’analisi e la linea politica stentavano a comporre un quadro coerente. Gramsci a Mosca svolse un ruolo di mediazione, scontando la debolezza di un partito decimato dagli arresti di polizia e mancante di una forte base di militanti. Accusò Rákosi di adottare metodi sbrigativi e sprezzanti delle capacità organizzative dei comunisti italiani, ma riconobbe che la linea del Comintern non poteva non mirare a conquistare la massa dei partiti socialisti europei (47). Poco dopo però Zinoviev censurò duramente i dirigenti italiani e criticò Gramsci per aver fatto vaghe promesse di sostenere la linea della fusione, che non aveva mantenuto (48). Gramsci annotò che la tattica del fronte unico non aveva trovato «in nessun paese partito e uomini che sapessero concretarla (…). Evidentemente tutto ciò non più essere casuale. C’è qualche cosa che non funziona in tutto il campo internazionale e c’è una debolezza e una deficienza di direzione» (49). Dopo il primo anno a Mosca egli giunse così alla conclusione che l’intera revisione strategica operata dopo il fallimento della rivoluzione europea nei primi due anni del dopoguerra fosse un’esperienza frustrante e poco convincente, anche per una responsabilità del gruppo dirigente russo. A Mosca il campo visuale che si aprì a Gramsci era molto più ampio di quanto non suggeriscano le dinamiche cominterniste tra centro e periferia. Entrando in contatto diretto con i bolscevichi e con l’ambiente cosmopolita del comunismo internazionale, Gramsci si mise alle spalle il generico internazionalismo dei rivoluzionari europei del dopoguerra. I suo contatti con Trotsky, Bucharin e altri esponenti del gruppo dirigente del Comintern furono significativi. Egli fu testimone partecipe della riconversione del bolscevismo al potere dopo la guerra civile. Proprio nel novembre 1922, Lenin e Trotsky dilatarono il tempo storico della rivoluzione mondiale, immaginata originariamente come un evento immediato e travolgente, senza mancare di rivendicare il 1917 come modello. In parallelo, Lenin presentò la Nep (Novaja Ekonomiceskaja Politika, Nuova Politica Economica) come un’opzione strategica, anche se il suo giudizio oscillava tra l’idea di una «ritirata» e una visione di più lungo periodo. I bolscevichi seguivano la logica del consolidamento del loro potere statale, che li portava a privilegiare la ripresa economica e la stabilità interna. La loro revisione dopo il «comunismo di guerra» era molto più empirica che concettuale. Il duplice compromesso costituito dalla Nep in Russia e dal «fronte unico» nel movimento comunista si prestava a interpretazioni diverse e assunse un evidente aspetto asimmetrico, perché il tema dell’«alleanza» con il mondo contadino appariva a molti più persuasivo e necessario di quello del rapporto con il mondo socialdemocratico. In ogni caso, l’adeguamento a un tempo e uno spazio della rivoluzione diversi da come erano stati pensati nel 1917 era il tema all’ordine del giorno nella Mosca del 1922. L’incontro di Gramsci con Lenin, il 25 ottobre 1922, fu probabilmente importante a questo proposito. È facile ritenere che il dialogo con Lenin indusse una riflessione sul fallimento dell’occupazione delle fabbriche di due anni prima, come avvenne poco dopo nel caso di Tasca (50). Di fatto si pose allora il problema del passaggio dalla «guerra di movimento» alla «guerra di posizione», destinato a lasciare una lunga traccia nel pensiero di Gramsci, fino a sovrapporre un decennio più tardi la memoria del IV Congresso del Comintern, depurata dai suoi aspetti contingenti, e l’elaborazione teorica retrospettiva compiuta in prigione (51)” (pag 20-21-22) [Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento’, Einaudi, Torino, 2021] [note: (45) G. Sas ‘Der Faschismus in Italien, C.Hoym, Hamburg 1923; e D. Renton, Fascism. Theory and Practice, Pluto Press, London, 1999, pp. 58-60 (…); (46) Palmiro Togliatti. La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Bompiani, Milano, 2014, pp. 43-67; (47) Rgaspi, f: 513, op. 1, d. 1871, II, 14-17; e ivi d. 166, II, 6-11; (48) Riunione della Commissione italiana del 21 giugno 1923, in FG, Pcd’I, scatola Ic 1922-1925; (49) Gramsci, La costruzione del partito comunista, cit-, pp. 456-57; (50) A. Tasca, I primi dieci anni del Pci, Laterza, Roma Bari, 1973 , p. 115; (G. Vacca, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci’, Einaudi, Torino, 2017, pp. 63-65] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]