“Per sostanziare tale ideologia liberistica, Wilson (a) chiamò a collaborare con lui uomini come William Nassau Senior, Herbert Spencer, Thomas Hodgskin, che furono così i portavoce dell’etica produttivistica delle ‘middle classes’ (6). Il liberismo non era comunque destinato a rimanere una componente minoritaria del sistema politico inglese. L’abolizione dei dazi granari nel 1846 segnò il trionfo dell’ Anti-Corn Law League e del partito di Cobden e Bright e l’inizio di quel che Marx avrebbe chiamato «il Millennio liberoscambista» (7), mentre nel 1851 la Great Exhibition di Crystal Palace e la visita della regina Vittoria nel Lancashire misero definitivamente in luce che i gruppi capitalistici e industriali erano divenuti forza determinante nella gestione dello Stato (8). Con la sua ascesa al vertice dello Stato, la classe politica liberale vedeva necessariamente mutare anche il proprio rapporto con le forze sociali che erano escluse dal potere ed esercitavano verso di esso una pressione esterna. Veniva a mutare, in particolare, il rapporto con la classe operaia, di cui non si poteva più cercare l’appoggio sul terreno politico, rigettandone al contempo le rivendicazioni economiche. Il declino del movimento cartista aveva avuto la conseguenza di dare impulso all’espansione e al consolidamento dell’unionismo operaio, che aveva ormai conquistato, alla metà del secolo, un’autonoma rilevanza con cui la classe dirigente doveva fare i conti. Il suo progetto di governo venne non poco turbato dai problemi inerenti alla legittimità della mediazione sindacale nella contrattazione con i lavoratori e alla compatibilità delle Trade Unions con l’ordinamento economico e civile liberale. Non dovette essere facile per la classe dirigente passare, nel giro di pochi anni, da un rifiuto incondizionato dell’organizzazione operaia a un riconoscimento cauto ma effettivo della sua funzione positiva. Fatto sta che dal travaglio cui andarono sottoposte le relazioni industriali negli anni cinquanta uscì soltanto sconfitto il dottrinarismo liberistico più schematico, ed emerse quel tipico pragmatismo che avrebbe guidato di lì alla fine dell’Ottocento le scelte della classe politica liberale in materia di questioni di lavoro. Questo processo storico, che può essere a pieno titolo descritto come una fase progressiva di «liberalizzazione» (9), ebbe una rappresentazione fedele nei commenti e nelle riflessioni che l’«Economist» dedicò ai fenomeni dell’unionismo operaio e degli scioperi” (pag 131-132) [Giuseppe Berta, ‘Unionismo e scioperi nel commento dell’«Economist» (1852-1860)’], (in) Annali della Fondazione Luigi Einaudi, Torino, vol. IX, 1975, stampa 1976] [(a) James Wilson fondatore de ‘The Economist’ (primo numero 2 settembre 1843); (6) Cfr. H. Scott Gordon, arti.cit., passim.; (7) Cfr. K. Marx, ‘Il Capitale’, Roma, 1956, vol. I, t. 3, p. 100; (8) Cfr. R. Boyson, ‘The Ashworth Cotton Enterprise. The Rise and Fall of a Family Firm, 1818-1880’, Oxford, 1970, p. 228; (9) Cfr. J. Foster, ‘Class Struggle and the Industrial Revolution. Early Industrial Capitalism in Three English Towns’, London, 1974, cap. 7]
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- Articolo pubblicato:30 Giugno 2021