“Nel libro I del ‘Capitale’, Marx studia la cooperazione tra i lavoratori, in particolare quella dei salariati riuniti dal capitalista in una stessa officina. Qualsiasi cooperazione è formata da una forza collettiva incomparabilmente più efficace della somma dei lavori individuali isolati, anche nel caso di cooperazione semplice con i lavoratori aventi la stessa mansione (21). Con la cooperazione si manifesta anche la necessità di una direzione: «Ogni lavoro sociale in senso immediato, ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole, abbisogna, più o meno, di una direzione che procuri l’armonia delle attività individuali». È necessario, per ragioni ‘tecniche’, che vengano assolte queste «funzioni generali» di direzione, di sorveglianza e di mediazione, ‘qualunque sia il modo di produzione’. Nel modo di produzione capitalistico, il capitale si impadronisce di questa funzione, conferendole dei «caratteri speciali»: essa diventa infatti non più solo «una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme ‘funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale». Diventa necessario controllare in modo dispotico i salariati poiché essi sono riuniti solo dal legame esterno del capitale, tanto che la funzione di direzione capitalistica è «quanto al ‘contenuto’ di duplice natura» (22). Questa «duplice natura» si manifesta chiaramente con lo studio della suddivisione del lavoro nella manifattura e nella fabbrica. Già nella prima, ogni operaio non è che una particella dell’«operaio collettivo» tanto più perfetto in quanto «l’operaio parcellare è incompleto»; ognuno è legato a vita ad un’operazione semplice, integrato in una gerarchia definitiva, sottomesso ai sorveglianti. Ma nella manifattura c’è ancora un agglomerato di mestieri in cui la specializzazione rimane qualificazione e moltiplica la forza produttiva. Nella fabbrica invece, dove l’operaio non è che «complemento vivente» della macchina, il sistema della suddivisione del lavoro non è più necessario «dal punto di vista tecnico»; dopo qualche giorno di apprendistato, un bambino può servire la macchina. Il sistema precedente si mantiene «in un primo tempo (…) per consuetudine come tradizione della manifattura, per essere poi riprodotto e consolidato ‘sistematicamente’ dal capitale quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro, in una forma ancor più schifosa» (23). Ritroviamo la «duplice natura» ed è necessario distinguere «fra la maggiore produttività dovuta allo sviluppo del processo sociale di produzione e la maggiore produttività dovuta al suo sfruttamento capitalistico» (24)” (pag 262-263) [Pierre Dockès, ‘L’internazionale del capitale’, Editori Riuniti, Roma, 1977] [(21) K. Marx, Il Capitale, I, cit., pp. 366-367 e 370; (22) Ivi, pp. 372-373; (23) Ivi, p. 466; (24) Ivi. Cfr. anche, sulla manifattura e la fabbrica, pp. 379 e sgg., 463 e sgg.]