“Si venne così costituendo – in un paese meridionale dove le proporzioni delle luci e delle ombre sono facilmente spostabili – quasi lo stesso stato d’animo dei popoli vinti. Negli anni 1919 e 1920 l’Italia, se non ebbe le condizioni economiche così disastrose dei paesi vinti, ebbe però in comune con essi una profonda delusione, una irritazione fatta di rancori, un desiderio di mutazioni violente. Così la gioventù italiana, in quel grande travaglio economico e psicologico del dopo guerra, si avviò, per una parte, verso le profetizzate insurrezioni del socialismo; per un’altra parte, verso la ribellione dannunziana di Fiume, due sbocchi diversi ed opposti di una stessa anima ribelle. I casi della storia permisero al socialismo di dare a questa anima ribelle un segno, una idea-forza, un mito. La rivoluzione russa era allora sboccata nel comunismo. La dittatura del proletariato aveva finalmente trovato un uomo che l’aveva instaurata: Lenin. Il modo della produzione e degli scambi, adottato dalla rivoluzione russa, non giungeva ben chiaro e distinto nei paesi d’occidente, un po’ per la barriera che tutti gli Stati avevano innalzata intorno al mondo slavo, un po’ per la complessità e la primitività di quell’economia, fino allora quasi ignota nei nostri paesi. Ma questa ignoranza giovava. I ceti, a cui il comunismo avrebbe recato danno, non si spaventavano d’una rivoluzione di cui non capivano l’effetto economico; i facili entusiasmi degli apologisti del bolscevismo non si esaurivano nella discussione dei dettagli. Ciò che costituiva il mito seducente della rivoluzione russa non era tanto il comunismo, quanto la dittatura dei consigli dei soldati, degli operai, dei contadini. I veri combattenti, i produttori autentici della ricchezza, erano, dunque, in Russia padroni assoluti dello Stato. Gli uomini che avevano versato il loro sangue sulle frontiere contese avevano rovesciato gli antichi capi e gli antichi padroni, avevano data la terra ai contadini – una promessa questa troppe volte ripetuta, specialmente dai liberali italiani, durante la guerra – avevano dato le officine agli operai, avevano conferito alle forze nuove, espresse dalla guerra, poteri dittatoriali coi quali esse punivano i torti ricevuti, distruggevano gli arricchimenti illeciti, livellavano i privilegi iniqui. Così, nella fervida immaginazione del nostro popolo scontento, a cui l’incoltura non permetteva un esame critico approfondito, il lontano bolscevismo russo, vagamente intuito più che compreso, diventava il simbolo della giustizia sociale, che premia gli artefici della guerra e punisce i profittatori. Anche nell’ordine internazionale, la Russia rivoluzionaria, messa al bando degli Stati dell’Intesa e minacciosa contro l’Intesa, rappresentava per il nostro popolo, malato di una crisi di delusione, la vendetta della storia contro la prepotenza delle paci imposte, la ribellione contro le ingiustizie di cui esso sentiva il morso crudele. Così alla Russia di Lenin potevano guardare, nello stesso momento, e i ribelli del socialismo bolscevico e i ribelli dannunziani di Fiume. Questa insperata fortuna toccata al socialismo italiano per il concorso di circostanze imprevedute e straordinarie, ampliò talmente i suoi quadri, le sue schiere, la cerchia della sua influenza morale, da porlo al primo posto nella vita politica del dopo guerra, e da conferirgli una potenza con la quale avrebbe potuto compiere l’impresa più arrischiata e audace. Senonché è proprio in questo periodo che si manifesta la debolezza organica della sua costituzione e l’incommensurabile insipienza dei suoi dirigenti” (pag 30-32) [Ivanoe Bonomi, ‘Dal socialismo al fascismo. La sconfitta del socialismo – Le crisi dello Stato e del Parlamento – Il fascismo’, A.F. Formiggini, Roma, 1924] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]