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‘L”Enfermé’, il prigioniero, così si indicava Auguste Blanqui negli anni considerati in questo primo volume – gli ultimi anni del Secondo Impero e i primi anni della Terza Repubblica. Le cifre lo giustificavano: trentatré anni e sette mesi di carcere, sei anni di esilio o di sorveglianza della polizia, due anni otto mesi ventiquattro giorni di residenza forzata – e dopo il suo rifiuto dell’amnistia – dieci mesi e ventisette giorni di prigione volontaria. In totale quarantatré anni otto mesi, ossia molto più della metà dei settantacinque anni di vita di Blanqui (1805-1881), e la quasi totalità della sua vita attiva (1830-1880). Meno di sette anni di esistenza libera su cinquant’anni (pag 7). Secondo Blanqui occorreva rifiutare i sistemi socialisti fondati sull’utopia, uscenti da «cervelli fantasiosi» come quelli di Fourier e di Cabet; i discepoli di Saint-Simon erano divenuti servitori del Capitale; e quanto a Proudhon, che Blanqui incontrò nel 1848, ne riconosceva la virtù della sua denuncia della proprietà ma contestava la sua filosofia, ai suoi occhi piccolo-borghese. Il nome di Blanqui era rimasto nella memoria dei sopravvissuti del 1848 che l’avevano trasmesso alla nuova generazione. Quando fu liberato con l’amnistia del 1859, ritrovò i suoi amici e discepoli. Ma come poteva esercitare un’azione posto sotto la sorveglianza della polizia e in una semi-clandestinità? Il carcere che ritrovò ben presto era, si può dire, più favorevole. A Sainte-Pélagie il prestigio era grande presso un gruppo di giovani repubblicani tra cui figuravano Arthur Ranc e il Giovane Georges Clemenceau. Paul Lafargue, che sposerà la figlia di Karl Marx, dichiarerà: «E’ lui ad averci trasformato. Per noi è stato corruttivo». E quanto a Marx, nel giugno del 1861 scriveva che aveva «sempre considerato Blanqui come la testa e il cuore del partito proletario in Francia»’ (pag 19) [dalla prefazione di Julien Cain] [Gustave Geffroy, ‘L’enfermé. I’, Éditions Rencontre, Paris, 1975 ca.]