“Al proprietario terriero che malediceva le tasse per i poveri e all’industriale tessile che brontolava per l’alto costo della mano d’opera, una scuola di pensiero religioso ora portava la confortante assicurazione che anche la moralità avrebbe tratto vantaggio da una riduzione di entrambi. In un famoso passo del ‘Manifesto del partito comunista’, Marx osserva che “dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra l’uomo e l’uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo ‘pagamento in contanti'” (134). Le discussioni degli economisti inglesi del periodo fra il 1660 e il 1760 sulla meccanica dell’occupazione potrebbe fornire un’interessante illustrazione della sua tesi. Era caratteristica di questa discussione un atteggiamento verso il nuovo proletariato industriale notevolmente più duro di quello generalmente diffuso nella prima metà del diciassettesimo secolo, tanto da non trovare riscontro ai nostri tempo se non nel comportamento dei più abietti colonizzatori bianchi verso i lavoratori di colore. Le accuse di “lusso, orgoglio e indolenza” (135) rivolte ai salariati inglesi del diciassettesimo e diciottesimo secolo sono veramente quasi esattamente identiche a quelle che abbiamo sentito rivolgere agli africani. Si dice che, a confronto degli olandesi, sono intemperanti e pigri; che non desiderano altro che un minimo livello di sussistenza, e raggiuntolo smettono immediatamente di lavorare; che più hanno paghe alte, più – “tanto licenziosi sono” (136) – spendono per bere; che quindi i prezzi alti non sono una disgrazia, ma una benedizione, perché costringono il salariato ad essere più industrioso; e che le paghe alte non sono una benedizione, ma una disgrazia, perché non fanno che provocare “orge settimanali”. Quando queste opinioni furono diffuse dappertutto, fu naturale che si predicassero come un dovere pubblico i rigori dello sfruttamento economico, e, tranne poche eccezioni, gli autori di quel periodo si differenziarono solo per quanto riguardava i metodi con cui tale severità avrebbe raggiunto l’organizzazione più efficiente. Pollexfen e Walter Harris pensavano di trovare la salvezza nella riduzione dei giorni di vacanza. Il vescovo Berkeley, che aveva sott’occhio le condizioni dell’Irlanda, suggeriva che “i mendicanti impenitenti dovrebbero… esser arrestati e tenuti come schiavi pubblici per un certo periodo di anni”. Thomas Alcock, colpito dalla tendenza dei lavoratori ad annusar tabacco, bere tè, e adornarsi di nastri, propose la restaurazione della legge che regolava le spese personali (137). Innumerevoli furono gli scrittori che prepararono progetti di riforma delle case di lavoro, che dovevano essere centri di punizione e di addestramento al tempo stesso. Tutti erano d’accordo, per ragioni morali non meno che economiche, che la riduzione dei salari fosse di importanza vitale. La tesi espressa da Arthur Young, quando scrisse “tutti tranne gli idioti sanno che le classi inferiori debbono esser mantenute povere, altrimenti non saranno mai industriose” (138), era il più banale luogo comune degli economisti della Restaurazione” [Richard H. Tawney, ‘La religione e la genesi del capitalismo. Studio storico’, Milano, 1967] [(134) ‘Manifesto del Partito Comunista’, ed.it., 1953, p. 96; (135) Defoe, ‘Giving Alms no Charity’, 1704, pp. 25-7; (136) Petty, ‘Political Arithmetic’, p. 45; (137) Sir Henry Pollexfen, ‘Discourse of Trade’, 1697, p. 49, Walter Harris, ‘Remarks on the Affairs and Trade of England and Ireland’, 1691, pp. 43-4, ‘The Querist’, 1737 (in ‘The Works of George Berkeley’, D.D., a cura di A.C. Fraser, 1871, p. 387, Thomas Alcock, ‘Observatins on the Defects of the Poor Laws’, 1752, pp. 45 sgg. (citato da Furniss, op. cit., p. 153); (138) Arthur Young, ‘Eastern Tour’, 1771, vol. 4, p. 361]