“Sulla teoria menscevica della rivoluzione russa. (…) Cerevanin (1) analizza il grandioso dramma del 9 gennaio 1905 per giungere a questa conclusione: «Trotsky non è nel giusto quando scrive: gli operai non si recarono al Palazzo d’Inverno con delle suppliche, ma con delle rivendicazioni politiche» (p. 27). (…) Dopo la pubblicazione del Manifesto del 17 ottobre, tutta la società borghese anelava alla calma. Il proletariato commise quindi una «pazzia» imboccando la strada della insurrezione rivoluzionaria. Avremmo invece dovuto concentrare l’energia del proletariato sulle elezioni della ‘Duma’. Cerevanin attacca tutti coloro i quali fecero notare che la ‘Duma’, per il momento, era solo una promessa, e che non si sapeva come e quando ci sarebbero state le elezioni, e se ci sarebbero state. Citando un mio articolo scritto nel giorno della pubblicazione del Manifesto, dice: «Non era per niente giusto sminuire il significato della vittoria riportata, come hanno fatto le “Izvestija Soveta Rabocich Deputatov” scrivendo: “E’ stata data la costituzione, ma è rimasta l’autocrazia. E’ stato concesso tutto e non è stato concesso niente”». Si andò, poi, di male in peggio. Invece di appoggiare il Congresso degli ‘zemstva’, che chiedeva il suffragio universale per le elezioni della ‘Duma’ di Stato, il proletariato ruppe bruscamente con il liberalismo e con la democrazia borghese, per cercare l’incontro con i nuovi «ambigui alleati»: i contadini e l’esercito. Si accumularono errori dietro errori: l’introduzione con metodi rivoluzionari della giornata di otto ore, lo sciopero di novembre, in risposta alla dichiarazione dello stato d’assedio in Polonia; così si arrivò alla inevitabile disfatta di dicembre. Questa stessa disfatta, insieme ai successivi errori della socialdemocrazia, preparò il fallimento della prima ‘Duma’, il successivo trionfo della controrivoluzione. Sono queste le concezioni storiche di Cerevanin. Il traduttore tedesco ha fatto il possibile per attenuare l’energia delle sue accuse e delle sue denunzie, ma, anche in questa versione raddolcita, il lavoro di Cerevanin somiglia più ad una requisitoria contro i crimini rivoluzionari perpetrati dal proletariato a danno della «tattica veramente realistica» piuttosto che ad un’analisi oggettiva della funzione rivoluzionaria delle masse operaie. Cerevanin sostituisce l’analisi materialistica dei rapporti sociali con una deduzione formalistica: la nostra rivoluzione è una rivoluzione borghese; la vittoria della rivoluzione borghese deve assicurare il potere alla borghesia; il proletariato deve contribuire al successo della rivoluzione borghese; deve quindi favorire il passaggio del potere nelle mani della borghesia; di conseguenza l’idea della conquista del potere da parte del proletariato non è conciliabile con la tattica che il proletariato deve seguire durante una rivoluzione borghese; la effettiva tattica del proletariato è stata, naturalmente, quella di condurre le masse operaie alla conquista del potere e perciò è stata erronea. Questa elegante costruzione logica, che i seguaci della filosofia scolastica chiamavano, mi pare, sorite, trascura, tuttavia, il problema fondamentale ossia la consistenza delle forze interne della rivoluzione borghese e la sua meccanica di classe. (…) La rivoluzione è prima di tutto lotta per la conquista del potere. Lo sciopero, come suggerisce la nostra analisi e come i fatti hanno dimostrato, è solo uno strumento rivoluzionario di pressione sul potere esistente. Invece il liberalismo dei cadetti, le cui pretese non sono mai andate oltre la costituzione ‘octroyée’, ha riconosciuto – invero solo per un istante – la validità dello sciopero generale come strumento di lotta; lo ha fatto però con il senno di poi, quando ormai il proletariato ne aveva scoperto l’insufficienza ed aveva capito che era inevitabile e necessario varcare i suoi limiti. L’egemonia della città sulla campagna, dell’industria sull’agricoltura, ed inoltre l’estrema modernità dell’industria russa, l’assenza di una media borghesia forte e robusta, di fronte alla quale gli operai avrebbero potuto fare soltanto da reparti ausiliari, hanno trasformato il proletariato nella principale forza della rivoluzione, ponendolo direttamente di fronte al problema della conquista del potere. Gli scolastici, che si ritengono marxisti solo perché osservano il mondo attraverso la carta su cui sono stampate le opere di Marx, hanno potuto citare quanti «testi» volevano a dimostrazione della «prematurità» del dominio politico del proletariato; ma la classe operaia russa, viva e reale, quella classe operaia che, sotto la guida di un’autentica organizzazione di classe, alla fine del 1905, ha sfidato a duello l’assolutismo, mentre il grande capitale e l’ ‘intelligencija’ facevano da padrini, da una parte e dall’altra, questo proletariato in tutto il suo sviluppo rivoluzionario ha sempre affrontato il problema della conquista del potere. Un confronto tra il proletariato e l’esercito diveniva inevitabile. L’esito del confronto dipendeva dal comportamento dell’esercito, ed il comportamento dell’esercito dalla sua composizione. La funzione politica degli operai nel paese è stata incomparabilmente superiore alla loro consistenza numerica. Lo hanno dimostrato gli avvenimenti, e lo hanno confermato più tardi le elezioni alla seconda ‘Duma’. Gli operai trasferiscono anche nelle caserme i propri vantaggi di classe: abilità tecnica, intelligenza, idoneità alle azioni di massa. In tutti i movimenti rivoluzionari dell’esercito la parte più importante l’ha sempre avuta il soldato specializzato del Genio o l’artigliere, la cui patria è sempre la città, o, meglio, il quartiere operaio” [Leon Trotsky, ‘1905’, Milano, 1978, a cura di Valdo Zilli]  [(1) In questo saggio Trotsky recensisce l’opera: A. Cerevanin (Tscherewanin), ‘Das Proletariat un die russische Revolution’, Stuttgart, Dietz Verlag, 1908. [Il proletariato nella rivoluzione russa). L’autore, un importante esponente dell’ala destra della frazione menscevica, dava in questa opera una significativa illustrazione della tesi “liquidatrice”, di quella tesi cioè che sosteneva l’opportunità di rinunciare a ogni attività clandestina per concentrare ogni sforzo organizzativo nell’ambito dell’attività legalmente autorizzata. Questa era la tesi condivisa dalla maggioranza dei menscevichi e fieramente avversata dai bolscevichi (…) (p. 271)]