“«Al governo delle persone succederà l’amministrazione delle cose»: questa formula sansimoniana era comune a Comte e a Marx. Marx si convinse che a questo risultato si sarebbe arrivati grazie a quello che era l’autentico motore di ogni cambiamento sociale: le forze produttive della società, i rapporti fra le quali costituivano i fattori fondamentali che determinavano le forme esteriori – «la sovrastruttura» – delle relazioni sociali (di regola, le forme servivano a mascherare i fattori). Fra queste forme esteriori figuravano le istituzioni giuridiche e sociali, ma anche le idee nelle teste degli uomini, le ideologie che consapevolmente o inconsapevolmente assolvevano il compito di difendere lo ‘status quo’, ossia il potere della classe dominante, contro le forze storiche incarnate dalle vittime del sistema esistente, le quali alla fine sarebbero nondimeno uscite vittoriose. Quali che siano stati i suoi errori, nessuno può oggi negare che Marx diede prova di capacità prognostiche senza uguali nell’identificare la principale tendenza in atto – la concentrazione e centralizzazione dell’impresa capitalistica -, ossia la tendenza inesorabile verso dimensioni crescenti da parte del grande ‘business’ (allora in embrione) e l’acuirsi dei conflitti sociali e politici che ciò comportava. Egli s’impegnò inoltre a smascherare i travestimenti conservatori e liberali, patriottici e umanitari, religiosi ed etici, che servivano a occultare alcune delle più brutali manifestazioni di questi conflitti e le loro conseguenze sociali e intellettuali. Furono, questi, pensatori autenticamente profetici” (pag 336-337); “L’atteggiamento dei fondatori del marxismo verso il patriottismo nazionale o locale, verso i movimenti autonomistici, verso l’autodeterminazione dei piccoli Stati e simili, non lascia adito a dubbi. Prescindendo dalle dirette implicazioni della loro teoria dell’evoluzione sociale, il loro atteggiamento verso la resistenza danese alla Prussia nella vertenza per lo Schleswig-Holstein, verso la lotta italiana per l’unificazione e l’indipendenza del paese (nei suoi dispacci al «New York Times» Marx assume al riguardo una posizione nettamente diversa da quella del filo-italiano Lassalle), verso gli sforzi compiuti dai Cechi per difendere la loro cultura dall’egemonia tedesca, e anche verso l’esito della guerra franco-prussiana, è assolutamente chiaro. L’accusa di appoggiare il pangermanesimo mossa a Marx dal leader anarchico svizzero James Guillaume fu solo un’assurdità propagandistica nel quadro della Grande Guerra. Come altri storicisti che credono in una civiltà unica, universale, in continuo progresso, Marx vedeva nei patriottismi nazionali o regionali una resistenza irrazionale da parte di forme di sviluppo inferiori che la storia si sarebbe incaricata di rendere obsolete. In questo senso la civiltà tedesca (e in seno ad essa l’organizzazione operaia già in pieno sviluppo) rappresentava uno stadio evolutivo più avanzato (sia pure, indubbiamente, capitalistico) rispetto, poniamo, alla ‘Kleinstaaterrei’ danese o boema. Analogamente, dal punto di vista del movimento internazionale dei lavoratori era auspicabile che vincessero i Tedeschi – con le loro superiori organizzazioni operaie – anziché i Francesi, imbevuti com’erano di proudhonismo, bakuninismo e altro ancora. Non c’è traccia di nazionalismo nella concezione marxiana delle tappe del cammino del mondo verso il comunismo e oltre. (…)” (nota a pag 351-352) [Isaiah Berlin, a cura di Henry Hardy, ‘Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee’, Milano, 1994]