“(…) la concezione marxista (coerentemente sviluppata) della prassi, come ultimo e supremo criterio della verità, costituisce un’eccezione nella storia della filosofia – un’eccezione, d’altra parte, che non si è verificata per caso, Il marxismo è una filosofia che rispecchia gli interessi delle masse lavoratrici, e si pone lo scopo di servire la causa della loro lotta. Già nella sua giovinezza Marx affermava che così come la filosofia trova nel proletariato la realizzazione dei suoi fini, il proletariato trova nella filosofia (s’intende, nella filosofia rivoluzionaria), la sua arma ideologica; e criticando nelle ‘Tesi su Feuerbach’, il carattere contemplativo della filosofia della sua epoca, egli aggiungeva che la vecchia filosofia aveva solo interpretato il mondo, mentre si trattava ora di cambiarlo. L’orientamento verso la prassi è dominante in tutta la riflessione marxista: e il marxismo filosofico si sviluppa insieme alla prassi del proletariato rivoluzionario, serve ad essa. Ora, proprio perché la filosofia marxista aveva le sue radici nell’interesse di classe del proletariato, essa era in grado di porre, in legame con la lotta proletaria per la trasformazione della realtà, la questione della prassi nel modo radicale che corrisponde a questa lotta: e così è infatti avvenuto. Questo rapporto trova espressione anche nella teoria marxista della verità. Abbiamo già citato, nel paragrafo introduttivo di questo capitolo, la seconda delle ‘Tesi di Feuerbach’, in cui Marx osserva che il problema della verità obiettiva del pensiero umano non è un problema teoretico, bensì pratico, e che la sua separazione dalla prassi lo riduce a una mera questione scolastica. Questa tesi – che stabilisce il criterio della verità nella prassi – è una delle tesi fondamentali del marxismo, con le quali esso rivoluzionò profondamente la tradizione filosofica. I passi seguenti dei classici marxisti serviranno ad illuminare la connessione generale del problema della prassi. Engels, che indicò non meno decisamente di Marx il criterio della verità nella prassi, trattò diffusamente questo tema in polemica con l’agnosticismo del suo tempo, che negando la conoscibilità della “cosa in sé”, distorceva in realtà il vero carattere della nostra conoscenza. L’attacco engelsiano a questa tesi è del tutto fondato sul criterio della verità fornito dalla prassi di cui egli si serve come di una pietra di paragone della conoscenza: «Il nostro agnostico ammette pure che le nostre conoscenze sono fondate sui dati che riceviamo attraverso i nostri sensi; ma – si affretta ad aggiungere – come possiamo sapere se i nostri sensi ci forniscono delle rappresentazioni fedeli degli oggetti percepiti per mezzo di essi? E continua informandoci che quando egli parla degli oggetti e delle loro proprietà non intende in realtà questi oggetti e queste proprietà di cui non può saper niente di sicuro, ma semplicemente le impressioni che essi hanno prodotto sui suoi sensi. Non v’è dubbio che è difficile poter continuare solo con degli argomenti una tale maniera di ragionare. Ma prima di argomentare gli uomini hanno agito. ‘In principio era l’azione’ (*). E l’attività umana aveva risolto la difficoltà molto tempo prima che l’ingegnosità umana l’avesse inventata. ‘The proof of the pudding is in the eating’. Nel momento che facciamo uso di questi oggetti secondo le qualità che in essi percepiamo, sottoponiamo a una prova infallibile l’esattezza o l’inesattezza delle percezioni dei nostri sensi. Se queste percezioni erano false anche il nostro giudizio circa l’uso dell’oggetto deve essere falso; di conseguenza il nostro tentativo di usarlo deve fallire. Ma se riusciamo a raggiungere il nostro scopo, se troviamo che l’oggetto corrisponde all’idea che ne abbiamo, che esso serve allo scopo a cui lo abbiamo destinato, questa è la prova positiva che entro questi limiti le nostre percezioni dell’oggetto e delle sue qualità concordano con la realtà esistente fuori di noi. Quando invece il nostro tentativo non riesce, non ci mettiamo molto, d’abitudine, a scoprire le cause del nostro insuccesso; troviamo che la percezione che ha servito di base al nostro tentativo, o era per se stessa incompleta o superficiale, o era collegata in modo non giustificato dalla realtà coi dati di altre percezioni, il che noi chiamiamo un ragionamento difettoso. Nella misura in cui avremo preso cura di educare e di utilizzare correttamente i nostri sensi, e di mantenere la nostra azione nei limiti prescritti da percezioni correttamente ottenute e correttamente utilizzate, troveremo che il successo delle nostre azioni dimostra che le nostre percezioni sono conformi alla natura oggettiva degli oggetti percepiti. Finora non abbiamo un solo esempio che le nostre percezioni sensorie, scientificamente controllate, determinino nel nostro cervello delle idee sul mondo esterno le quali siano, per loro natura, in contrasto con la realtà, o che vi sia incompatibilità immanente fra il mondo esterno e le percezioni sensorie che noi ne abbiamo» (8). In questo passo troviamo dunque non solo l’assegnazione della prassi come criterio della verità, in forma chiara e precisa, ma anche, sulla stessa base della prassi, la confutazione del capovolgimento agnostico della teoria della verità in generale, e in particolare del problema del criterio. In modo altrettanto deciso Engels si esprimeva qualche anno prima nel suo ‘Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca’. Dopo aver discusso l’identificazione idealistica di pensiero ed essere, egli caratterizzava in questo modo il punto di vista agnostico: «Esiste però anche una schiera di altri filosofi, i quali contestano la possibilità di una conoscenza del mondo, o almeno di una conoscenza esauriente di esso. Tra i moderni appartengono a questa schiera Hume e Kant, che hanno avuto una parte molto importante nello svolgimento della filosofia. L’essenziale per la confutazione di questa concezione è già stato detto da Hegel, nella misura in cui si poteva farlo da un punto di vista idealistico. Ciò che Feuerbach ha aggiunto da un punto di vista materialistico è più ingegnoso che profondo. La confutazione più decisiva di questa ubbia filosofica, come del resto di tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall’esperimento e dall’industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue condizioni, e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri fini, l’inafferrabile ‘cosa in sé’ di Kant è finita. Le sostanze chimiche che si formano negli organismi animali e vegetali restarono ‘cosa in sé’ fino a che la chimica organica non si mise a prepararle l’una dopo l’altra; quando ciò avvenne, la ‘cosa in sé’ si trasformò in una cosa per noi, come per esempio l’alizarina, materia colorante della garanza, che non ricaviamo più dalle radici della garanza coltivata nei campi, ma molto più a buon mercato e in modo più semplice dal catrame di carbone. Il sistema solare di Copernico fu per tre secoli un’ipotesi, su cui vi era da scommettere cento, mille, diecimila contro uno, ma pur sempre un’ipotesi. Quando però Leverrier, con i dati ottenuti grazie a quel sistema, non solo dimostrò che doveva esistere un altro pianeta, ignoto fino a quel tempo, ma calcolò pure in modo esatto il posto occupato da quel pianeta nello spazio celeste e quando, in seguito, Galle lo scoprì, il sistema copernicano fu provato” (9). Da questo passo emerge chiaramente il senso specifico in cui la prassi è criterio della verità. Del resto, è possibile trovare molti passi delle opere dei classici in cui viene ribadita questa tesi. Per esempio Lenin osserva: “In una ‘determinazione’ completa dell’oggetto dovrebbe essere compresa l’intera prassi umana, sia come criterio della verità, sia anche come ciò che determina praticamente il rapporto dell’oggetto con quel che è necessario per l’uomo” (10)” [Adam Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni genera
li, Milano, 1959] [(*) Goethe, Faust, parte I; (8) Engels, ‘L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza’, cit., pp. 24-26; (9) Engels, Ludovico Feuerbach, cit., pp. 49-50 (Il pianeta in questione è Nettuno, ndt); (10) ‘Ancora sui sindacati’, Opere, 4, ed. russa, vol. 32, p. 72]
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