“Un’altra questione – che per il suo specifico carattere esula veramente dal campo della nostra indagine – è la seguente: il saggio generale del profitto risulterà accresciuto in conseguenza del più elevato saggio del profitto prodotto da un capitale che sia investito nel commercio estero e soprattutto coloniale? I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti a un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti. Finché il lavoro del paese più progredito viene in tali circostanze utilizzato come lavoro di peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta, in quanto il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore viene venduto come tale. La stessa situazione si può presentare rispetto a un paese con il quale si stabiliscono rapporti di importazione e di esportazione: esso fornisce ‘in natura’ una quantità di lavoro oggettivato superiore a quello che riceve e tuttavia ottiene la merce più a buon mercato di quanto non potrebbe esso stesso produrre. Il caso è analogo a quello di un fabbricante che, sfruttando una nuova invenzione prima che sia diventata di dominio pubblico, vende a minor prezzo dei suoi concorrenti e tuttavia al di sopra del valore individuale della sua merce: utilizza insomma come pluslavoro la produttività specifica superiore del lavoro da lui impiegato, realizzando così un sovra-profitto” [K. Marx, Il Capitale, III, XIV, pp. 288-91] [in ‘La teoria dell’imperialismo’, a cura di Alberto Martinelli, 1976]
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- Articolo pubblicato:1 Ottobre 2012