“«La Germania ebbe Marx ed Engels, e il primo Kautsky; la Polonia Rosa Luxemburg; la Russia, Plekhanov  e Lenin; l’Italia, Labriola, che (quando da noi c’era Sorel) era in corrispondenza da pari a pari con Engels, poi Gramsci». Così Louis Althusser, nella prefazione a quella raccolta di saggi, ‘Pour Marx’ (1965), che hanno assai movimentato negli anni recenti, in Occidente, la problematica teorica del marxismo. Althusser è lí intento a stabilire punti di confronto storici per la sua azione di sommovimento intellettuale, polemicamente annotando, per così dire alle proprie spalle, «l’assenza tenace, profonda, di una reale cultura ‘teorica’ nella storia del movimento operaio francese» (1). Per contrasto egli mette in rilievo, anche per quel che riguarda noi italiani, l’esistenza, dalla fine del secolo passato, di una grande tradizione teorica del marxismo, che si riallaccia, attraverso il Labriola, direttamente a uno dei due fondatori, allo Engels: un ponte che ha come due grandi pilastri, che sono lo stesso Labriola e Gramsci. (…) Questa è la peculiarità concreta, storica, della «tradizione» di tale marxismo italiano: la sua presenza e ‘concorrenza’ di fatto su un terreno egemonico (per usare una nota categoria gramsciana), quale non è dato trovare altrove – nello stesso periodo di tempo che separa Gramsci da Labriola – prima di una rivoluzione e di una presa di potere. In questo (ma solo in questo senso) si può parlare di una tradizione del marxismo italiano che collega nel profondo i suoi due massimi, e in un certo modo unici, rappresentanti, Labriola e Gramsci. Bisogna invece stare attenti a non costruire fittiziamente altre forme di continuità, che di fatto non ci furono. Ci fu, al contrario, una profonda frattura, le cui ragioni fanno tutt’uno con la storia del socialismo e del movimento operaio italiano. In essa, per lungo periodo, il pensiero del Labriola scomparve, o fu presente solo per richiami marginali, o utilizzati in interpretazioni del marxismo (come nel Mondolfo) che solo in superficie (la «filosofia della praxis») e non certo organicamente si riferivano anche, alla sua elaborazione. Nello stesso tempo in Gramsci è difficile distinguere quanto ci fu di derivazione diretta da Labriola (probabilmente non molto); quanto di successivo recupero, a partire da esperienze compiute nella lotta politica e ideale (e dunque, fatalmente, nei limiti di queste esperienze), e quanto di un riaffioramento oggettivo, in circostanze storiche profondamente mutate, di irrisolti problemi della società italiana e delle classi lavoratrici in essa. In qualunque modo possa venire definito il rapporto Labriola-Gramsci, esso presuppone una discontinuità ed una interruzione. E’ del resto lo stesso Gramsci a testimoniarlo implicitamente quando nella sua meditazione carceraria gli venne fatto di porre una domanda, che viene spesso citata: «Perché il Labriola e la sua impostazione del problema filosofico hanno avuto così scarsa fortuna?» (2)” [Cesare Luporini, ‘Il marxismo e la cultura italiana del Novecento’] [(in) ‘Storia d’Italia. I documenti. Volume XVII. Il mondo dei dotti e le tradizioni popolari’, Milano, 2005] [(1) Cfr. L. Althusser, ‘Per Marx’, Roma, 1967, p. 7; (2) A. Gramsci, ‘Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce’, Torino, 1948, p. 80 (cfr. p. 79: «…la posizione filosofica del Labriola… pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta»)]