“Nell’analizzare la crisi del XVII secolo ci troviamo di fronte ad uno dei problemi fondamentali circa le origini del capitalismo: come mai l’espansione economica del tardo ‘400 e del ‘500 non portò direttamente alla rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo? In altre parole, quali furono gli ostacoli frapposti all’espansione capitalistica? Le risposte concernono aspetti generali e particolari della questione. La risposta di carattere generale può essere riassunta nel seguente modo. Per il trionfo del capitalismo è necessaria una rivoluzione nelle strutture feudali ed agrarie della società. La divisione sociale del lavoro deve essere spinta al massimo se si desidera un aumento della produzione, contemporaneamente la forza-lavoro sociale deve essere radicalmente spostata dall’agricoltura all’industria. La quota del prodotto da scambiare al di fuori del mercato puramente locale deve aumentare in modo addirittura drammatico. Fino a quando non si disponga di una numerosa classe di operai salariati, fino a quando la massima parte degli uomini supplisce ai propri bisogni col prodotto del proprio lavoro o attraverso lo scambio in una pluralità di mercati più o meno autarchici, che esistono persino nelle società primitive, vi è un limite al profitto capitalistico, manca l’incentivo a realizzare quella che potremmo definire produzione di massa, la base dell’espansione del capitalismo industriale. Storicamente questi processi non possono essere separati l’uno dall’altro. Si può parlare di creazione di «mercato interno capitalistico» o della separazione dei produttori dai mezzi di produzione che Marx definì «accumulazione primitiva» (24); la formazione di un grosso mercato sempre in espansione e la creazione di una forza lavoro libera, numerosa e facilmente utilizzabile procedono di pari passo; come due aspetti diversi dello stesso processo. Si è talvolta preteso che lo sviluppo di «una classe di capitalisti» e degli elementi per il tipo di produzione capitalistica all’interno della società feudale abbiano prodotto automaticamente queste condizioni. Nel lungo periodo, considerato il più ampio arco di tempo, dal 1000 al 1800, le cose vanno indubbiamente così. Nel breve periodo il discorso è diverso. A meno che certe condizioni non siano presenti – non è ancora del tutto chiaro quali esse siano – la prospettiva dell’espansione capitalistica sarà limitata dalla generale prevalenza della struttura feudale della società, cioè dal predominante settore rurale o da una serie di altre «strutture» che immobilizzano allo stesso tempo la potenziale forza-lavoro, il potenziale surplus (destinato agli investimenti produttivi) e la potenziale domanda dei beni prodotti in base al sistema capitalistico, come avviene con la prevalenza del tribalismo e della produzione dei beni di prima necessità. In simili condizioni, come ha dimostrato Marx, per ciò che concerne l’impresa mercantile (25) il commercio può adattarsi ad operare in una struttura sostanzialmente feudale accettandone i limiti ed il particolare tipo di domanda e diventandone in un certo senso parassita. In tal modo si rivelerà incapace di superare le crisi della società feudale e potrà persino aggravarle. Sostanzialmente lo sviluppo capitalistico è cieco. La debolezza della vecchia teoria che attribuiva il successo del capitalismo allo sviluppo dello «spirito capitalistico» o allo «spirito imprenditoriale» consiste nel fatto che il desiderio di realizzare instancabilmente il massimo profitto non produce come conseguenza automatica la necessaria rivoluzione nella società e nella tecnica. Insomma si deve giungere alla produzione di massa (che tende alla realizzazione dei massimi profitti aggregati, o meglio, grossi profitti ma non necessariamente grossi utili per ogni singola vendita) in luogo della produzione per il massimo profitto per ogni unità venduta” [E.J. Hobsbawm, ‘La crisi del XVII secolo’] [(in) ‘Crisi in Europa, 1560-1660. Saggi da ‘Past and Present”, Napoli, 1968, a cura di Trevor Aston] [(24) V.I. Lenin, ‘The Development of Capitalism in Russia’, cap. I (conclusioni), cap. II (conclusioni), cap. III (la formazione del mercato nazionale). Marx, Il Capitale, I, ed. inglese 1938, pp. 738, 772-4. Che Marx non si riferisca all’effettiva accumulazione di risorse è dimostrato penso da un manoscritto preparatorio della ‘Critica dell’Economia Politica’. «’Null’altro è proprio del capitale se non l’unione delle masse di braccia e di strumenti che esso trova. Esso li agglomera sotto il suo potere’. Questa è la sua ‘vera accumulazione’; l’accumulazione di operai in alcuni punti assieme ai loro strumenti» (‘Forme economiche precapitalistiche’, trad. it, con prefaz. di E.J. Hobsbawm, Roma, 1967, p. 115; (25) ‘Capital’ III, parte IV (Merchant’s Capital); e in particolare vol. II, p. 63, ediz inglese. Vedere inoltre R.H. Milton, ‘Capitalism, What’s in a Name?’, Past and Present, n. 1, febbraio 1952]