“Il rilievo dato da Marx al periodico ritorno delle crisi (che mettono sempre più minacciosamente in forse l’esistenza della società borghese) ci dà il modo di porre in evidenza un’altra caratteristica delle crisi economiche che non viene generalmente considerata dalla teoria tradizionale tecnico-astratta: la crescente gravità delle crisi e il loro collegamento nel lungo ciclo storico del capitalismo. E questo sembra un principio acquisito, ma non è tale in realtà. Notate, per esempio, l’uso dello stesso termine “grande crisi” (“grande depressione”) impiegato tante volte nella storia. Si è così parlato di “grande crisi” dopo le guerre napoleoniche; si è detta “grande crisi” quella del 1874 (scoppiata in Inghilterra e ricordata “come quello che è avvenuto quando sono state costruite le ferrovie”); si è parlato poi di “grande crisi” soprattutto negli anni 1929-30 e seguenti. Il termine “grande crisi” è stato quindi sempre successivamente allargato nel senso che le crisi sono andate via via sviluppandosi in ampiezza e gravità. Se di tale crescente gravità vogliamo cogliere un indice significativo, possiamo riferirci a quello della disoccupazione: nel 1860, la crisi aveva reso disoccupati in Inghilterra il 5% dei lavoratori precedentemente impiegati; nel 1865, i disoccupati sono aumentati all’8%; nel 1882-83, al 12%; dal 1900 al 1920, la percentuale media è scesa aggirandosi sul 10%; ma nel 1921 siamo già al 17% e nel 1929-30 al 22-23%. Per quanto poi riguarda la prospettiva di grandi crisi future, vi leggerò un breve passo di un economista inglese, il Sayers, che considera la possibilità che si presenti una crisi negli Stati Uniti d’America: “Gli Stati Uniti hanno 140 milioni di abitanti di cui 60 milioni risultano occupati nei mesi più attivi (tre volte la cifra del Regno Unito). Tra i beni prodotti annualmente, abbiamo 90 milioni di tonnellate di acciaio, 600 milioni di tonnellate di carbone, 4 milioni di automobili e 800 mila case. Una depressione paragonabile a quella del 1929 significherebbe un aumento della disoccupazione per 20 milioni di unità, il che equivarrebbe a lasciare senza impiego l’intera popolazione occupata della Gran Bretagna”. In altri termini la percentuale di mano d’opera che resterebbe disoccupata in un’eventuale grande crisi – che viene peraltro prevista in modo piuttosto ottimistico – sarebbe del 33% dell’occupazione complessiva degli Stati Uniti. Notate ora come questo pauroso crescendo, questo concatenamento delle crisi, questo loro progressivo sviluppo ci portano a concludere che non si può parlare – come si fa generalmente – di cicli economici staccati gli uni dagli altri. Per contro dobbiamo abituarci a rappresentarci questi fenomeni di depressione e di espansione come strettamente concatenati. Dobbiamo ormai rappresentarci lo sviluppo ciclico storico dell’intera economia capitalistica che si attua attraverso scossoni sempre più paurosi che vengono denunciati dalla crescente gravità delle crisi” [Giulio Pietranera, Economia politica. XIV lezione.La teoria delle crisi capitalistiche, Roma, 1955]