“Le simpatie di numerosi partiti  e gruppi socialisti andavano ad Arabi Pascià e alle forze nazionaliste che egli capeggiava in opposizione sia alla posizione passiva del Khedivé, sia alle pesanti interferenze anglo-francesi con l’obiettivo di condurre il paese all’indipendenza. Lo scritto sul “Sozialdemokrat” sulla ‘Socialdemocrazia e la questione egiziana’ riportava con approvazione il contenuto degli appelli votati a Parigi nel corso di una manifestazione di solidarietà organizzata dai guesdisti. In essi si esprimeva l’appoggio al partito nazionale formatosi in Egitto come a un partito che si batteva per la causa dell’indipendenza e della sovranità come aveva fatto la borghesia europea, e si salutava con entusiasmo l’offerta fatta da due ex-combattenti della Comune di Parigi di voler accorrere in aiuto ai ‘fellah’ sulle sponde del Nilo e ripetere le gesta che i “valorosi internazionalisti avevano compiuto nel 1871 per il proletariato sulle sponde della Senna” (6). Di fronte a una simile presa di posizione, che né a Bernstein né a Kautsky era sembrata da nessun punto di vista sbagliata, Engels esprimeva una serie di giudizi che avevano una duplice origine: anzitutto, la volontà di richiamare i suoi due giovani corrispondenti alla necessità di assumere di fronte ai problemi della politica un atteggiamento freddo e distaccato: “Non appena da qualche parte si verifica un tumulto, ecco tutti i rivoluzionari latini delirare, senza alcun atteggiamento critico… In tutte le questioni di politica internazionale, i giornali di partito italiani e francesi, con il loro sentimentalismo politico debbono essere usati con la più grande diffidenza, mentre noi tedeschi abbiamo il dovere di confermare anche in questo settore, attraverso la critica, la superiorità teorica, uno volta che ce l’abbiamo” (7). In secondo luogo Engels esprimeva alcuni punti di una ‘Realpolitik’ disincantata e severa, frutto delle esperienze quarantottesche, ma collegata all’insieme di riflessioni che lui stesso e Marx avevano compiuto sui contadini delle aree extraeuropee e sulle caratteristiche del dispotismo e della stagnazione in Oriente. Secondo Engels, niente autorizzava a valutare Arabi come un pascià diverso dagli altri: Arabi era semplicemente un avversario militare degli inglesi che, in caso di vittoria, avrebbe sottratto agli stranieri il privilegio dell’esazione delle imposte al fine di riscuoterle per proprio conto. Nei confronti dei contadini egiziani, dei ‘fellah’, egli non era che l’incarnazione della forma tradizionale dello sfruttamento, quello esercitato appunto da satrapi o da pascià: “E’ di nuovo – scriveva – l’eterna storia dei popoli contadini. Dall’Irlanda alla Russia, dall’Asia minore all’Egitto, il contadino di un paese contadino si trova lí per essere sfruttato… A mio parere, potremmo benissimo parteggiare per i ‘fellah’ oppressi, senza condividere le loro momentanee illusioni (giacché un popolo contadino deve essere imbrogliato per secoli prima di essere reso intelligente dall’esperienza), e potremmo assumere un atteggiamento contrario alla brutalità degli inglesi senza solidarizzare con i loro momentanei avversari militari” (8). Engels, scrivendo a Bernstein, aveva introdotto alcuni elementi di novità nella posizione del problema delle colonie e dei popoli “oppressi”, di cui Kautsky gli aveva scritto a sua volta, ma non aveva ancora risposto alla domanda iniziale: “Devo confessare apertamente – scriveva Kautsky il 6 settembre 1882, sollecitando la risposta di Engels – che su questa cosa non sono  ancora riuscito a rendermi le idee chiare”. (…) Finalmente, il 12 settembre, Engels si decise a rispondere ai ripetuti inviti di Kautsky: “Mi domandate che cosa pensino gli operai inglesi della politica coloniale? Ebbene, esattamente lo stesso di ciò che pensano della politica in generale: e cioè lo stesso di ciò che pensa la borghesia”. Nel merito della questione coloniale Engels entrava subito dopo, affrontando per primo il problema delle prospettive di sviluppo delle colonie: esse dovevano essere distinte in primo luogo fra quelle nei confronti delle quali poteva essere applicato il principio dell’indipendenza e quelle che avrebbero dovuto essere ancora guidate nel loro sviluppo. Nel caso di una vittoria del proletariato europeo – questa, è bene ripeterlo, costituisce la premessa di tutta la discussione – le colonie propriamente dette, ossia l’Australia, il Canada, il Capo, sarebbero divenute indipendenti, mentre i possedimenti popolati da indigeni sarebbero stati affidati al proletariato e condotti “il più rapidamente possibile” verso l’indipendenza. “Come questo processo si svolgerà – proseguiva Engels – è difficile a dirsi. L’India forse farà la rivoluzione, come è probabile, e poiché il proletariato che si libera non può condurre guerre coloniali, bisognerà lasciarlo seguire il suo corso… Lo stesso potrebbe accadere altrove, ad esempio in Algeria e in Egitto e sarebbe, ‘per noi’, la cosa migliore”. Il proletariato vittorioso avrebbe “riorganizzato” l’Europa e l’America del Nord, che avrebbero costituito un esempio di tale potenza da condurre al loro rimorchio tutti i paesi semicivili. “Quali fasi sociali e politiche, tuttavia, questi paesi devono trascorrere per giungere anch’essi all’organizzazione socialista, è una domanda alla quale credo si possa oggi rispondere  solo con ipotesi oziose. Solo una cosa è certa: il proletariato vittorioso non può imporre la felicità a nessun popolo senza perciò minare la sua stessa vittoria” (10)” [Franco Andreucci, ‘La questione coloniale e l’imperialismo’, estratto da ‘Storia del marxismo’, Volume secondo, ‘Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale’, Torino, 1979] [(6) ‘Die Sozialdemokratie und die egyptische Frage’, in “Der Sozialdemokrat’, 3 agosto 1882; (7) ‘Eduard Bernsteins Briefwechsel mit Friedrich Engels’, a cura di H. Hirsch, Assen, 1970, pp. 120-21; (8) Ibid.; (9) ‘Friedrich Engels’ Briefwechsel mit Karl Kautsky’, cit, p. 59; (10) Ibid. p: 63]