“[Marx] rimprovera a Smith di avere del lavoro una “determinazione puramente negativa” (17), così come parecchi anni prima aveva rimproverato a Hegel di “vedere soltanto l’aspetto positivo del lavoro” (18). Peraltro l’operazione dialettica con cui Marx ce ne fa vedere l’aspetto negativo muoveva da una determinazione sicuramente positiva del lavoro, tanto che egli aveva giudicato importante la ‘Fenomenologia’ proprio in quanto con essa Hegel “coglie l’essenza del ‘lavoro'”, “concepisce l’uomo reale come risultato del ‘proprio lavoro'”, e anzi “intende il ‘lavoro’ come l”essenza’, l’essenza che si avvera dell’uomo” (19). (…) Due e distinti sembrano gli elementi fondativi di questo chiaro pronunciamento marxiano sulla positività del lavoro. a) Il primo, quello dei ‘Manoscritti’ (…). La violenza della requisitoria sul lavoro che estrania l’operaio dalla propria essenza umana poggia interamente sull’opposta clausola, che attraverso il lavoro si autorealizzi l’essenza dell’uomo. Il furore dialettico rivela la passione politica. La positività del lavoro può dunque apparire come immanente, o anche presentarsi come senso comune, ma è soprattutto una scelta di campo, giovanile e definitiva. E’ per questo che non ha neppure bisogno di essere dimostrata. b) Il secondo fondamento non è più di genere filosofico bensì scientifico. Si affaccia già fin dall”Ideologia tedesca’ e accompagna poi il ragionamento marxiano più maturo. Potremmo definirlo antropologico e farlo discendere dallo spirito del Rinascimento, non più dalla logica hegeliana. “Il lavoro – leggiamo nel ‘Capitale’ – è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura”, e nel quale, “operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria” (22). Qui, col lavoro, l’uomo diventa uomo nella sua materialità, non più nella sua essenza. Come potrebbe non essere positivo, l’agente di questa trasformazione, del mondo e di sé? Tant’è vero “che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, è la base dell’intero mondo sensibile, quale ora esiste” (23) – era già stato obiettato a Feuerbach. (…) Occorre vedere allora se la faccia positiva guarda avanti, verso la fine dello sfruttamento. Aiutano poco, in materia, le pagine dell”Ideologia tedesca’ sulla rivoluzione comunista dei proletari che “per affermarsi personalmente, devono abolire il lavoro” (38) come condizione di esistenza loro propria e di tutta la società (39). Meglio cercare nelle opere mature. E’ qui che Marx prospetta come nel ‘Capitale’ (40), il “regno della libertà” quale si instaura “dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita” – come scrive poi nella ‘Critica al programma di Gotha’ (41). Ed è oltremodo significativo che questo bisogno sia al tempo stesso elevato ed elementare. Nei ‘Grundrisse’ si parla infatti, per l’individuo, del “bisogno di una normale porzione di lavoro” (42). In tal modo la prospettiva avveniristica viene a coincidere con una esigenza vitale, anche psichica” (43). Dove anzi la fuoriuscita dal regno della necessità è meglio delineata seppur fugacemente, cioè nel ‘Capitale’, Marx è così realistico da porre come “condizione fondamentale di tutto ciò la riduzione della giornata lavorativa” (44). E nei quaderni dei ‘Grundrisse’ avverte a più riprese, polemico con Fourier, che “il lavoro non può diventare gioco” anche quando saranno “create le condizioni affinché sia lavoro attraente” (45)” [Aris Accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna, 1980] [(17) K. Marx, Lineamenti, cit., vol II, p. 279; (18) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1963, p. 264; (19) Ibidem, pp. 263-4; (22) K. Marx, Il Capitale, Roma, Edizione Rinascita, 1956, vol I, p. 195; (23) K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, Roma, 1958, p. 41; (38) K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 76; (39) (…) Marx (o Engels?) non parlava di abolire il lavoro ‘tout court’ (…); (40) K. Marx, Il Capitale, cit, vol. III, p. 231; (41) K. Marx F. Engels, ‘Il partito e l’Internazionale’, Roma, Edizioni Rinascita 1948, p. 232 (…); (42) K. Marx, Lineamenti, cit., vol. II, p 278; (43) Ne parlerà poi S. Freud, ‘Il disagio della civiltà’, Torino, Boringhieri, 1971, p. 24 (…); (44) K. Marx, Il Capitale, cit., vol. III, p. 232; (45) K. Marx, Lineamenti, cit. vol. II, p. 410]