“Proprio dal giudizio di Schumpeter si può prender le mosse anche per esaminare il secondo aspetto dell’analisi del valore tentata da Galiani. Il quale non si ferma, infatti, a considerare il “valore d’uso”, ma subitaneamente “si volge dalla ‘rarità’, riferita alla quantità di merce, alla ‘fatica’; e da questo punto in poi la eleva alla dignità di un unico fattore di produzione, la considera l’unica circostanza ‘che dà valore alla cosa’” fino a venir delineando una teoria fondata sul valore di equilibrio come proporzionale alla quantità di lavoro, il che sarebbe in tutti gli elementi essenziali precisamente la teoria di Ricardo e di Marx (vol. 1, p. 368). Questa parte, che pure è affrontata esplicitamente e a lungo nel trattato ‘Della moneta’, ha attirato di meno l’attenzione degli studiosi. Solo Achille Loria, forse per una sue certa formazione marxistica, è largo di riconoscimenti, e giudica Galiani “fra i primi economisti che abbia ridotto al solo lavoro la misura del valore di scambio”, appoggiandosi a quanto già scrivevano al riguardo tanto J.B. Say quanto McCulloch (p. 37). Ma, al contrario di Loria, Graziani per esempio ascrive a merito di Galiani e a sua originalità rispetto a Locke e a Cantillon proprio il fatto di aver dato nella sua costruzione poco posto al lavoro, che sarebbe considerato solo come uno fra “i vari elementi che tutti si riannodano al concetto di utilità largamente inteso” (p. 105). E tacciono in merito, o quasi, altri critici fra i più accurati e favorevoli, come Einaudi, Lanzillo, Tagliacozzo. Maggiore interesse mostreranno invece gli economisti marxiani e ricardiani, a cominciare da Marx stesso. Il quale anche nel ‘Capitale’ (vol. I, 1, I, p. 10), oltre che nelle ‘Theorien über den Mehrwert’ (vol. 3, p. 289), fa alcuni riferimenti a Galiani, e non esita a servirsi di un esempio tratto dalla ‘Moneta’ per sostenere la sua teoria del plusvalore “relativo”. Di recente si è avuta poi da parte di uno studioso marxista come Giulio Pietranera una nuova analisi, che è riuscita abbastanza severa verso opere come quella di Galiani. A suo giudizio, “nei primi due terzi del Settecento un deciso avvio verso teorie sistematiche del valore appare soltanto nella direzione del ‘valore soggettivo’, ed in questo campo la vecchia impostazione aristotelico-scolastica viene perfezionata dai Galiani, i Turgot, i Condillac e gli Hutcheson”: per il resto si torna al semplice enunciato metafisico del valore-lavoro, o alle teorie del costo di produzione, oppure, con Cantillon, “ci si dibatte nello scindere i problemi del valore d’uso da quelli del valore di scambio” (Franklin e Cantillon, p. 426). Galiani rientrerebbe precisamente nell’indirizzo che, seguendo Locke e Cantillon, continua la lunga epoca giusnaturalistica della teoria del valore-lavoro. Un indirizzo che finisce col confondere lavoro come ‘fonte’ e lavoro come ‘misura’, labour ‘embodied’ e labour ‘commanded’, restando ancora nettamente fuori dall’idea di lavoro sociale come lavoro ‘astratto’, anticipata semmai da un altro pensatore di quell’età, qual è Petty (Locke e Petty, pp. 1021 sgg.). (…) Il discorso che da qui si svolge permette di scorgere, in Galiani, un embrione della teoria della deteriorazione dell’utilità dei beni prospettivi, come già Pantaleoni aveva osservato. Sostiene Einaudi che spetti anzi allo scrittore napoletano il merito di avere anticipato le teorie della scuola austriaca, che considerano l’interesse come lo strumento atto ad eguagliare beni presenti e beni futuri (p. 289). Certo à che Böhm-Bawerk medesimo in ‘Kapital und Kapitalzins’ non manca di dichiarare il suo debito verso Ferdinando Galiani, anche se giudica limitate e insoddisfacenti le conseguenze che questi seppe ricavare dalle proprie intuizioni (ed. amer., pp. 49-50)” [dall’introduzione di Alberto Caracciolo al volume di Ferdinando Galiani, ‘Della moneta’, Milano 1963, a cura di Alberto Merola] (pag XXIII-XXIV-XXV)