“Per l’operaio, invece, diventa essenziale “rendere disponibile quotidianamente, mettendolo in moto e convertendolo in lavoro”, soltanto “quel tempo che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo” (Marx, ndr) entità queste a loro volta variabili in base all’evolversi dei bisogni ‘sociali’. E’ così che, “nella storia della produzione capitalista, la ‘regolamentazione della giornata lavorativa’ si presenta come ‘lotta per i limiti della giornata lavorativa’ – lotta fra il capitalista collettivo, cioè ‘la classe capitalista’, e l’operaio collettivo, cioè ‘la classe operaia’. (…) La creazione della giornata normale è dunque il prodotto di una guerra civile lenta e più o meno velata, fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai” (K. Marx, Il capitale). In effetti, se al plusvalore e alla giornata lunga ha sempre teso chi “possegga il monopolio dei mezzi di produzione”, nei sistemi precapitalisti, prevalendo il ‘valore d’uso’ dei prodotti su quello ‘di scambio’, “non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di plusvalore”, come invece avviene col passaggio al modo di produzione capitalista, per il quale la durata della giornata di lavoro diventa uno dei fattori essenziali nella produzione di plusvalore e quindi dell’accumulazione e dello sviluppo capitalista. E’ per questo che, tra il secolo XVIII e il XIX, il capitalismo nascente, nello spazzar via le varie barriere alla libera iniziativa, liquida tra i primi quei vincoli corporativi che erano nel vecchio regime a frenare l’aumento della giornata di lavoro, cui già tendeva il capitalismo in embrione, allorché tra il secolo XIV e XVII la borghesia ebbe bisogno di ricorrere all’intervento dello Stato, vuoi con gli ‘Statutes of Labourers’ in Occidente e vuoi coi ‘codici delle corvée’ nell’Europa danubiana, per far “allungare coercitivamente la giornata di lavoro”. Tale intervento dello Stato, voluto ‘allora’ dalla borghesia, riuscì a portare l’orario ‘minimo per legge’ a 10-10½ nel 1562, mentre nel 1833 quello stesso intervento, furiosamente combattuto ‘ora’ dal capitale, riesce a malapena a fissare a 12 ore l’orario massimo per legge ‘per i soli fanciulli’: e mentre tra il sec. XVII e XVIII l’orario di fatto è di 10 ore e quindi molto inferiore a quello fissato dagli Statuti, la legislazione sociale dell’800 è largamente elusa, colle aberrazioni documentate dagli Ispettori delle fabbriche e analizzate da Engels. E Marx conclude: “Il capitale aveva bisogno di secoli per prolungare la giornata lavorativa fino ai suoi ‘limiti massimi naturali’ e poi, al di là di questi, fino ai limiti della giornata naturale di 12 ore: ma ora, dopo la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del sec. XVIII, si ebbe un acceleramento violento e smisurato. (…) Tutti i limiti, di morale e di natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, furono spezzati. (…) Il lavoratore isolato, il lavoratore come libero venditore della propria forza-lavoro, soccombe senza resistenza quando la produzione capitalista ha raggiunto un certo grado di maturità”. La Legge Le Chapelier (17-6-1791) è simbolo e strumento di tale avanzata: essa spazza via i vincoli corporativi e in pari tempo proibisce al proletariato di organizzarsi. Questo nella rivoluzione francese, mentre in Inghilterra, col ‘Combination Act’ 1799 “viene proibita in maniera generale (…) la coalizione in vista di fini professionali”, considerando tra l’altro illegale ogni intesa operaia rivolta ad ottenere “una riduzione e una modificazione della durata del lavoro”. Negli Stati Uniti inizia nel 1806 la serie delle sentenze contro le coalizioni in nome della ‘Common Law’, cioè della libertà di iniziativa, sentenze che minacceranno sempre l’esistenza stessa del movimento sindacale” [Silvano Levrero, Fasi storiche internazionali della lotta per la riduzione degli orari (‘L’orario di lavoro’) (Studi); in ‘Rassegna sindacale –  Quaderni’, N° 30, maggio-giugno 1971]