“In che cosa consiste ora l’alienazione del lavoro? Il primo luogo nel fatto che il lavoro è ‘esterno’ all’operaio, cioè non gli appartiene al suo essere. Di conseguenza nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente pago ma infelice, non sviluppa alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente pertanto presso di sé soltanto fuori del suo lavoro, e nel suo lavoro fuori di sé. A casa propria è solo quando non lavora, e quando lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma fatto per costrizione, è ‘lavoro forzato’. Non è quindi l’appagamento di un bisogno, ma solo un ‘mezzo’ per appagare bisogni ad esso esterni. La sua estraneità risulta chiaramente dal fatto che in mancanza di una costrizione fisica o di altro genere il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di autosacrificio e di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per l’operaio si rivela nel fatto che esso non è suo proprio ma di un altro, che non gli appartiene e che in esso egli non appartiene a sé, ma a un altro. Come nella religione l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano, agisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, cioè come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è sua auto-attività. Essa appartiene a un altro, è la perdita di sé (19). Si giunge così al risultato che l’uomo (l’operaio) sente di agire liberamente ormai soltanto nelle sue funzioni animali, mangiare, bere, procreare, e tutt’al più nell’avere un’abitazione, nel vestirsi, ecc. (20), mentre nelle sue funzioni umane non si sente altro che una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Mangiare, bere, procreare ecc. sono senza dubbio anche funzioni schiettamente umane. Ma nell’astrazione che le isola dalla restante sfera dell’attività umana e le trasforma in scopi ultimi e unici sono funzioni bestiali (21). Abbiamo considerato l’atto dell’estraneazione dell’attività pratica umana, del lavoro, sotto due aspetti: 1. Il rapporto dell’operaio al ‘prodotto del lavoro’ come oggetto estraneo che esercita un potere su di lui. Questo rapporto è insieme rapporto al mondo sensibile esterno – agli oggetti naturali – come mondo estraneo che gli si oppone ostilmente. 2. Il rapporto del lavoro all”atto di produzione’ all’interno del ‘lavoro’. Questo rapporto è il rapporto dell’operaio alla sua propria attività come attività estranea, che non gli appartiene; è l’attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come evirazione, l’energia fisica e spirituale ‘propria’ dell’opera la sua vita personale – che cosa è la vita se non attività? – come un’attività rivolta contro lui stesso, indipendente da lui, e non appartenente a lui. L’ ‘auto-estraneazione’, come, più sopra, l’estraneazione della ‘cosa’” (pag 127-130) [Karl Marx, ‘Manoscritti economico-filosofici del 1844’, Newton Compton, Roma, 1976] [(19) Il lavoro alienato, secondo la caratterizzazione che ne dà qui Marx, è: a) esterno all’operaio, non appartenente al suo essere, inappagante; b) fatto per costrizione, non corrispondente a un bisogno; c) appartenente a un altro. Queste tre caratteristiche non stanno sullo stesso piano (…); (20) Si tratta d’altronde di una libertà illusoria, perché l’alienazione investe anche la sfera del «privato», riducendo – come Marx precisa nel periodo seguente – funzioni di per sé schiettamente umane a funzioni bestiali; (21) «Mangiare – commenta P. Naville – significa consumare il frutto di certi lavori, almeno per l’uomo uscito dall’animalità pura. (….)]
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- Articolo pubblicato:28 Aprile 2025