‘E tuttavia nessuno, tra si suoi compagni (di Lenin, ndr), osò criticare le idee che erano state lanciate nell’autunno 1917. Più ancora, anni ed anni più tardi, allorché lotte atroci avevano separato gli uomini della vecchia guardia bolscevica, il piccolo libro rimaneva il loro vangelo comune. Tradotto in tutte le lingue, ‘Stato e rivoluzione’ era una bibbia cui ci si riferiva continuamente per giustificare la propria politica e confondere l’avversario. Un fenomeno tale non può essere capito che offrendo diverse spiegazioni. La prima mette evidentemente in causa le condizioni particolare nelle quali si era sviluppata la rivoluzione russa. Un paese economicamente arretrato in cui alcuni milioni di operai si trovavano isolati in mezzo ad una massa contadina, la necessità di amministrare bene questa massa contadina ma allo stesso tempo di manovrare in modo da accaparrarsi una buona parte dei suoi redditi (base inevitabile di ogni accumulazione primitiva), le conseguenze d’una guerra civile che aveva moltiplicato le rovine e provocato l’emigrazione della maggior parte dei quadri tecnici, l’esistenza infine d’un ambiente internazionale ostile e sempre sul punto di favorire nuovi interventi militari: non c’era in tutto questo abbastanza per travolgere le ottimistiche previsioni fatte da Lenin in un momento in cui credeva che la rivoluzione russa avrebbe preceduto di poco la rivoluzione europea? Nel fuoco della lotta, nel corso di quel periodo che si chiama il «comunismo di guerra», era apparso certo possibile stabilire un certo egualitarismo. Ma si trattava, come ai tempi della Comune di Parigi, dell’egualitarismo d’una fortezza assediata. Tornata la pace, Lenin aveva avuto la saggezza di suonare la ritirata e di creare un ordine di cose più conforme alla reale situazione del paese. Si ebbero insieme la Nep, i ‘Kulaki’ e la burocrazia. Col passare del tempo, non si pensò più ad un ritorno indietro, ma ad un nuovo distacco. La Russia usciva lentamente dal Medio Evo. L’industrializzazione si estendeva per tutto il paese e la quasi totalità delle terre diventava proprietà collettiva. Si sarebbero viste rinascere le speranze del 1917? Le masse popolari avrebbero giocato un ruolo maggiore nella gestione dello Stato? E i funzionari avrebbero perso allo stesso tempo una parte dei privilegi politici e dei vantaggi materiali che ormai erano propri della loro condizione? La direzione presa fu, lo si sa, all’opposto di questa. La costruzione delle basi economiche del socialismo coincise con l’aumento delle disuguaglianze nella remunerazione del lavoro, e l’instaurazione d’un regime di terrore che gravava non soltanto sui quadri politici ma sull’intero popolo. Come giustificavano i dirigenti dell’Urss una simile evoluzione? Negando il terrore ed affermando che tutto ciò che poteva opporsi ancora alla decadenza dello Stato, predetta da Marx, Engels e Lenin, veniva dall’accerchiamento capitalista. Centinaia di migliaia di uomini – e tra questi la maggioranza dei membri del comitato centrale – venivano uccisi, milioni erano deportati, nessuna opposizione, nessuna critica era tollerata, ma Stalin dichiarava ciononostante nel marzo 1939: «La funzione della repressione all’interno del paese è divenuta superflua, essa è scomparsa perché lo sfruttamento è stato soppresso, gli sfruttatori non esistono più e non c’è nessuno da reprimere». (…) Ma gli oppositori che vengono giustiziati nell’ombra o sono condannati al termine di spettacolari processi, che posto occupano in tutto ciò? Ebbene, è molto semplice: li si battezza come «agenti stranieri», «spie imperialiste», e «sabotatori al servizio delle potenze capitaliste». In tal modo la teoria è salva e il libretto di Lenin può continuare a venir diffuso in tutto il mondo. Quest’impostura – una delle più formidabili che la storia abbia mai conosciuto – è naturalmente denunciata con violenza da quelle delle sue vittime che hanno ancora la possibilità di parlare e, in primo luogo, da Lev Trotsky. Egli spiega che un vero «Termidoro» si è verificato tra il 1925 e il 1927 e che il regime politico dell’Urss può ormai essere definito un «bonapartismo più vicino, nel suo tipo, all’Impero che al Consolato». La classe rappresentativa di questo bonapartismo è la burocrazia, che non ha smesso di proliferare e che conserva per sé una parte importante del reddito nazionale. Se questa burocrazia si è più o meno sbarazzata dell’avanguardia operaia, è perché il proletariato mondiale ha subito disfatte su disfatte e l’Urss si è trovata circondata dal mondo capitalista. Se questo accerchiamento cesserà, se nuove vittorie saranno ottenute in Europa ed in Asia, si assisterà al crollo del sistema bonapartista ormai inutile. La burocrazia, questa mostruosa escrescenza che deve il proprio potere solo a delle particolari condizioni storiche, non potrà più impedire il «ristabilimento della democrazia sovietica». Così, Trotsky invocava, sotto altra forma, lo stesso argomento di Stalin: le prospettive di Marx e Lenin rimangono sempre valide, gli ostacoli alla loro realizzazione provengono semplicemente dalla situazione della Russia e dall’isolamento della rivoluzione. I trotskisti potevano dunque in tutta tranquillità di spirito continuare anch’essi a distribuire il famoso libretto” (pag 22-24) [Gilles Martinet, ‘Il marxismo oggi o le contraddizioni del socialismo’, La Nuova Italia, Firenze, 1965]
- Categoria dell'articolo:Nuove Accessioni
- Articolo pubblicato:1 Ottobre 2024