“(…) L’analisi marxista del capitalismo, in fondo, riposa ancora sul presupposto di una economia concorrenziale. Coloro i quali conoscono le opere di Lenin, siano o no marxisti, possono trovare sorprendente tale affermazione, poiché proprio Lenin ha scritto: «Se si volesse dare la più concisa definizione possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo» (1). E non vi è dubbio che Lenin, nell’analizzare le politiche interne e internazionali del periodo culminato nella prima guerra mondiale abbia dato il massimo peso al prevalere del monopolio nei paesi capitalistici avanzati. (…) In questo campo ‘Il Capitale di Marx continua a regnare sovrano. Non che Marx abbia ignorato l’esistenza del monopolio nell’economia britannica del suo tempo, il sistema storico reale da cui egli ricavò il suo modello teorico. Ma al pari degli economisti classici che lo avevano preceduto, egli considerò i monopoli non come elementi fondamentali del capitalismo, ma come residui del passato feudale e mercantile da cui bisognava prescindere allo scopo di ottenere il quadro più chiaro possibile della struttura e delle tendenze fondamentali del capitalismo. È vero che, a differenza dei classici, Marx riconobbe pienamente la potente tendenza alla concentrazione e centralizzazione del capitale insita in una economia concorrenziale: la sua visione del futuro del capitalismo anticipò senz’altro nuove forme di monopolio puramente capitalistiche. Ma egli non cercò mai di indagare che cosa sarebbe stato allora un ipotetico sistema caratterizzato dal prevalere della grande impresa e del monopolio. In parte questo avvenne senza dubbio perché il materiale empirico su cui si sarebbe dovuta basare una tale indagine era troppo scarso per permettere generalizzazioni attendibili. Ma più importante ancora, perché forse Marx prevedeva il rovesciamento del capitalismo molto prima del manifestarsi di tutte le sue possibilità, nel pieno della fase concorrenziale del sistema. Engels, in alcuni dei suoi scritti successivi alla morte di Marx e nelle aggiunte fatte in qualità di curatore al secondo e terzo libro del ‘Capitale’ da lui preparati per la stampa, si soffermò sul rapido sviluppo dei monopoli negli anni 1880-1900, ma non cercò di inserire il monopolio nel corpo della teoria economica marxiana. Il primo a fare questo tentativo fu Rudolf Hilferding nella sua importante opera ‘Das Finanzkapital’, pubblicata nel 1910 (trad.it. Il capitale finanziario’, Feltrinelli, Milano, 1961). Ma nonostante tutta l’importanza attribuita al monopolio, Hilferding non lo considerò come un elemento qualitativamente nuovo nell’economia capitalistica, ma lo vide come fattore di modificazioni essenzialmente quantitative nelle fondamentali leggi marxiane del capitalismo. Come abbiamo rilevato, Lenin, il quale fu fortemente influenzato dall’analisi delle origini e della diffusione del monopolio, fatta da Hilferding, basò apertamente la sua teoria dell’imperialismo sul predominio del monopolio nei paesi capitalistici avanzati” (pag 5-7, introduzione) [(1) ‘L’imperialismo, fase suprema del capitalismo’, cap. 7 (trad. it. in Opere scelte, Ed. in Lingue estere, Mosca, 1974, vol. I p. 676] (…) “Anche nell’epoca del capitalismo monopolistico, come ai tempi di Marx, è dunque vero che «il potere politico dello … Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese» (Manifesto del Partito Comunista, Rinascita, Roma, 1955, p. 29] (pag 55) [P.A. Baran P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, 1968]
“La sostituzione del capitalista individuale con il capitalista della società per azioni costituisce una istituzionalizzazione della funzione del capitalista. Il centro vitale e decisivo di tale funzione è l’accumulazione: l’accumulazione è sempre stata il motore primo del sistema, il centro dei suoi conflitti, l’origine ad un tempo dei suoi trionfi e dei suoi disastri. Ma soltanto nell’infanzia del sistema si poteva dire che l’accumulazione esaurisse i doveri del capitalista. Con il successo vennero anche le responsabilità. Per dirla con le parole di Marx: «A un certo livello di sviluppo, un grado convenzionale di sperpero che è allo stesso tempo ostentazione della ricchezza e quindi fonte di credito, diventa una necessità professionale per il «disgraziato» capitalista. Il lusso rientra nelle spese di rappresentanza del capitale (1). Queste spese di rappresentanza hanno tradizionalmente assunto la forma di spreco vistoso da un lato e di filantropia dall’altro. Sia l’uno che l’altra hanno sempre perseguito un fine che oggi si chiamerebbe di relazioni pubbliche: il primo per abbagliare e intimidire il pubblico, la seconda per assicurarsene l’attaccamento e la simpatia. Sia l’uno che l’altra sono stati sostenuti dal capitalista privato” (pag 28-29) [(1) Il Capitale, vol. I, cap. 22, par. 4 (trad. cit. vol. I-3, p. 39)] [P.A. Baran P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, 1968]
“Alla domanda se gli piaccia il suo lavoro, uno dei personaggi di John Updike risponde: «Diavolo, non sarebbe un lavoro se mi piacesse». Tolta una esigua minoranza di lavoratori particolarmente fortunati o privilegiati, tutti gli altri sarebbero senza dubbio d’accordo. Non c’è nulla di intrinsecamente interessante nella maggior parte delle mansioni estremamente frazionate che i lavoratori sono costretti a svolgere; d’altra parte nello scopo di una mansione – nel migliore dei casi oscura e nel peggiore umanamente degradante -, il lavoratore non può trovare alcuna soddisfazione nel frutto dei suoi sforzi. Per quanto lo riguarda, l’unica giustificazione è la busta paga” (pag 288) (…) «Quanto più una classe dominante è capace di assimilare gli uomini più eminenti delle classi dominate – ha scritto Marx – tanto più solida e pericolosa è la sua dominazione» (Il Capitale, vol. 3, cap. 36 (trad, cit., vol. III,2, pp. 310-11) (pag 288) [P.A. Baran P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, 1968]