“La singolare concordanza fra i primi quattro autori (Lescure, Bouniatan, De Laveley, Juglar, ndr), che meglio appare dalle divergenze e dalle inesattezze dei due ultimi ai quali s’oppone, come vedremo, anche il Jevons, ci porta a tracciare con sicurezza il concetto di crisi implicito allo studio di Marx. Esso è innanzi tutto contro la erronea interpretazione di taluni economisti che tentano di definire con la parola «crisi» un periodo di disquilibrio economico – così s’è espresso recentemente il Bucci – distinto in fase ascendente, in cui si ha un aumento della prosperità generale, ed in una fase discendente successiva, in cui si verifica una depressione corrispondente». Ciò significa confondere nella ‘maniera più approssimativa il ciclo con la crisi: fine di ciclo’. D’altra parte il concetto marxistico è contro l’indeterminatezza che parecchi anni dopo la pubblicazione del 1° libro del «Capitale» regnava ancora nelle opere del Baron Mour, di Edward D. Jones, di Wagner, di Neymarck, di Roscher, di Herkner, di Schoeffle e di tanti geni professorali tedeschi che accettavano come conquista estrema la definizione della crisi come «sconvolgimento apportato all’equilibrio fra la produzione e la domanda effettiva». Per Carlo Marx la crisi, invece, costituisce «un’interruzione violenta» (1) che avviene in breve spazio di tempo , allorché lo stato di sovrapproduzione, di prosperità artificiale, di ottimismo esagerato crolla dinanzi alla mancata realizzazione dei profitti e all’insufficienza del credito. Il nostro autore ha usato infatti tale parola solo per quei periodi segnati da una fase di squilibrio acutissimo, fine d’un ciclo ed inizio di un altro. Essa è insomma solamente appropriabile alle gravi disfunzioni che lasciano un solco non facilmente colmato nella storia d’un paese e nell’equilibrio fluido della vita economica. Come ultima convalida, a tale riguardo, stanno poi le voci dei più autorevoli studiosi dell’argomento che già altre volte abbiamo avuto occasione di citare. «La crisi generale – scrive il Lescure – è il punto d’intersezione di un periodo di sforzo della durata da 3 a 5 anni, con un periodo di depressione di durata analoga. Essa è inoltre periodica». «La crisi – scrive il Prof. Aftallon – è il punto d’inserzione… in cui la prosperità diviene depressione». La crisi – scrive Tugan-Baranowski, alludendo, conformemente al Marx, alle crisi in senso proprio, quelle generali – irrompe come tempesta in mezzo alla prosperità, portando bancarotte, disoccupazione, miseria, ecc.» (2). «La parola «crisi» – conclude il Mitchell, decretando chiaramente al termine il valore di rapido sconvolgimento generale, attribuitogli dal Marx – deve essere usata come la parola «panico» o «boom», per indicare ‘grado d’intensità’. Ogni ciclo d’affari include infatti una fase di arretramento ma «questo può e non può essere segnato da una crisi» (3). «Circa il caso particolare del Marx – dichiara infine Antonio Graziadei – alcune concezioni sulle crisi economiche sono state conformate dagli avvenimenti del dopo guerra. Mentre la scuola classica inglese da una parte e quella del Say dall’altra negavano la possibilità di una crisi che avesse coinvolto la totalità o quasi dei vari rami dell’attività economica, l’esperienza, specialmente con le vicende degli anni 1929-1932, ha provato come sia possibilissima anche una crisi generale» (pag 26-27) [Annibale Ardigò, ‘La teoria congiunturale delle crisi in Marx, I, II’, ‘Tempi Nuovi’, n. 4, novembre 1945] [(1) Cfr. ‘Il Capitale’, Lib. I, Sez. III, Cap. VIII, pag 154, ed cit.; (2) Tugan Baranowski: “Geschichte der Handels Krisen in England”, 1913, pag 34; (3) W.C. Mitchell, ed. cit., pag 389]