“Ai fini del nostro discorso (…) interessa (…) un altro aspetto singolare di questo singolarissimo scritto sulla questione ebraica. Ne abbiamo sottolineato l’elemento utopistico, che marca la rottura colla fase liberale. Orbene, accanto a questo unico elemento di continuità, per quanto labile e indiretto, col realismo della ‘Gazzetta renana’, v’è in queste pagine la critica del volontarismo politico, di cui si mette in luce con acutezza l’incapacità costituzionale a superare effettivamente i limiti oggettivi di una determinata società civile. E nello sforzo di trascendere la realtà il volontarismo può solo approdare, agli occhi di Marx, nel giuoco sterile della «rivoluzione permanente», finché la realtà non faccia di nuovo e definitivamente valere i suoi diritti, travolgendo le costruzioni artificiose della volontà umana: «Nei momenti in cui la vita politica sente più specialmente se stessa, essa cerca di soffocare il proprio presupposto, la società borghese [= civile] e i suoi elementi, e di porsi per l’uomo come la reale e perfetta vita del genere umano. E questo può avere luogo soltanto tramite una violenta opposizione alle proprie condizioni di vita, solo in quanto la rivoluzione si dichiari permanente, e il dramma politico termina perciò ‘necessariamente’ con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società borghese [= civile], come la guerra si conclude con la pace» (11). L’esegesi del passo non è difficile. Il riferimento alla Rivoluzione francese, o meglio alla fase più avanzata di essa, quando l’ala giacobina tentò di forzare i limiti del programma borghese [ = girondino] corrispondente ai presupposti della società civile del tempo, dichiarando così la rivoluzione in permanenza contro le strutture stesse della società, è esplicito (poco sopra si accenna alla ghigliottina). Da questa esperienza, che aveva cominciato a studiare nel 1843 (12), Marx trae la conclusione della inutilità della rivoluzione puramente politica, elevando a dignità di principio generale l’esito della vicenda francese: ogni società ha propri «presupposti», cioè un insieme di rapporti di proprietà, di usi, costumi e credenze in cui risiede la radice profonda dei mali che l’affliggono; la volontà degli uomini non può eliminare definitivamente questi mali senza estirparli alle radici, né può giungere alle radici se prima l’evoluzione della società non ha maturato le condizioni oggettive perché l’intervento riesca. Certo, con uno sforzo immane, non privo di grandezza («tramite una violenta opposizione alle proprie condizioni di vita») la società può per un certe tempo, comunque assai breve, essere spostata dal suo baricentro, ma con risultati effimeri, ché le leggi di gravitazione sociale torneranno ad affermarsi, e alla rivoluzione seguirà «necessariamente» la restaurazione. Sul «Vorwärts» del 7 agosto 1844 il concetto verrà ribadito con ancora maggiore chiarezza: «quanto più un paese è politico, tanto meno è incline a cercare… ‘nell’ordinamento della società’, di cui lo Stato è l’espressione (…) la base dei mali sociali. L’intelligenza politica… quanto più acuta… tanto più è incapace di intendere i mali sociali. Il periodo classico dell’intelligenza politica è la Rivoluzione francese (…). Principio della politica è la volontà; quanto più l’intelligenza politica è perfetta, ‘tanto più crede nell’onnipotenza della volontà’, tanto più è cieca di fronte ai limiti ‘naturali’ e intellettuali del volere, tanto più è inabile quindi a scoprire la fonte dei mali sociali» (13). Il brano sopra esaminato della ‘Questione ebraica’ contiene in nuce, con un anticipo di quasi venti anni, il succo di un altro, ben più celebre e citato, passo di Marx: «Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui deve dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza» (14). Certo, nel 1843 Marx non sa ancora quali siano le leggi che regolano la dinamica delle società umane. Ma che esistano lo presuppone, altrimenti l’ideale dell’emancipazione umana, avanzato nelle stesso pagine, gli apparirebbe un sogno inutile e vano, destinato a non realizzarsi mai, e la critica della «rivoluzione permanente» avrebbe il sapore della condanna di ogni e qualsiasi rivoluzione. Il che non è” (pag 851-853) [Domenico Settembrini, ‘Le due teorie della rivoluzione in Engels e Marx’, Rivista Storica Italiana, ESI, Napoli, 1971] [(11) K. Marx, ‘Scritti politici giovanili’, a cura di L. Firpo, Einaudi, 1950, pp. 368-369; (12) Nel luglio del 1843 Marx «compendiò alcuni degli studi di Leopold Ranke sulla Rivoluzione francese» (V.S. Avineri, The Social and Political Thought of Karl Marx’, Cambridge University Press, 1969, p. 32; (13) K. Marx, ‘Scritti pol.’, op. cit., p. 437; (14) K. Marx, ‘Per la critica dell’economia politica’, Roma, 1957, p. 11. La prima edizione originale dell’opera è del 1858]