“Quando venne a Vienna, Hilferding mi fece visita e una sera mi portò in un caffè in cui mi presentò ai suoi amici austro-marxisti. In occasione di brevi soggiorni a Berlino, anch’io andavo a trovarlo. In un caffè berlinese avemmo un incontro con Mac Donald. Eduard Bernstein funse da interprete. Hilferding faceva domande, Mac Donald rispondeva. Non ricordo ora né le domande né le risposte che si distinguevano solo per la loro banalità. Io mi chiedevo quale dei tre fosse più lontano da quello che per me era il socialismo e non sapevo darmi una risposta. Durante i negoziati di Brest-Litovsk ricevetti da Hilferding una lettera. Non mi potevo aspettare nulla di importante, tuttavia l’aprii con curiosità. Dopo la rivoluzione di ottobre era la prima volta che ci giungeva dall’occidente socialista. Che cosa c’era? Hilferding mi chiedeva unicamente di far liberare un prigioniero della specie così numerosa dei medici viennesi. ‘Non una parola sulla rivoluzione’. Ma nella lettera mi dava del tu. Credevo di conoscere Hilferding abbastanza bene. Mi sembrava di non avere illusioni sul suo conto. Eppure non credevo ai miei occhi. Ricordo che Lenin mi chiese vivacemente: «A quanto pare, ha ricevuto una lettera da Hilferding». «Sì». «Ebbene?» «Intercede per un prigioniero di sua conoscenza». «Ma che cosa dice della rivoluzione?» «Niente». «Niente, proprio niente?» «Niente». «Non è possibile!». Lenin mi guardava con gli occhi spalancati. Io mi trovavo in una posizione di vantaggio: avevo avuto tempo di abituarmi all’idea che per Hilferding la rivoluzione e la tragedia di Brest non erano che un’occasione per intervenire a favore di un conoscente. Faccio grazia al lettore dei due o tre epiteti con cui Lenin sfogò il suo stupore. Hilferding mi presentò innanzitutto ai suoi amici viennesi: Otto Bauer, Max Adler e Karl Renner. Erano uomini di grande cultura che in molti campi ne sapevano più di me. Ascoltai con il più vivo interesse, direi quasi con rispetto, la prima conversazione al ‘Caffè centrale’. Ma ben presto il mio interesse si trasformò in meraviglia. Costoro non erano affatto dei rivoluzionari. Rappresentavano, anzi, il tipo opposto a quello del rivoluzionario. Lo si capiva da tutto: dal modo di affrontare le questioni, dalle riflessioni politiche, dalle valutazioni psicologiche, dalla soddisfazione di sé (soddisfazione e non sicurezza). Mi pareva persino di cogliere l’accento dei filistei nel timbro stesso delle loro voci. Quello che mi colpì di più era che questi eruditi del marxismo erano assolutamente incapaci di padroneggiare il metodo marxista non appena affrontavano i grandi problemi della politica e soprattutto i loro sviluppi rivoluzionari. Me ne resi conto prima di tutto per quanto riguardava Renner. Ci eravamo intrattenuti troppo a lungo al caffè, non c’erano più tram per Hütteldorf, e Renner mi propose di trascorrere la notte a casa sua. Quell’impiegato degli Asburgo, colto e non privo di talento, era ben lungi dal sospettare che la triste sorte dell’Austria-Ungheria, di cui era storicamente l’avvocato, avrebbe fatto di lui una decina d’anni più tardi il cancelliere della repubblica austriaca” (pag 212-213) [Leon Trotsky, ‘La mia vita’, Milano, 1976] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]
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- Articolo pubblicato:6 Febbraio 2018