“(…) Lenin vede nel movimento operaio internazionale molte forze che si attestano in posizioni di mera lotta sindacale o di riformismo politico, come testimoniano le sue dure critiche ai fabiani, alle ‘trade-unions’, a Gompers, agli «economisti» brentaniani. In ‘Che fare?’ (1) l’opera che più ampiamente discute questo tema, Lenin muove appunto dalla constatazione che l’unionismo inglese, al pari dei brentaniani e dei moderati, non soltanto limita l’azione del proletariato, ma con ciò stesso rappresenta un ostacolo reale alla sua liberazione dal sistema salariale. Esattamente come il Kautsky (2) che sempre aveva ribadito l’importanza della ‘leadership’ intellettuale, Lenin rifiuta la spontaneità della lotta economica e il determinismo storico che rinuncia all’opera di organizzazione delle masse, senza organizzazione politica non si ha la coscienza socialista, e lo spontaneismo economico, che la le sue più tipiche espressioni nelle ‘trade unions’, comporta inevitabilmente la sottomissione pratica alla borghesia. Gli operai, lasciati a se stessi, seguono necessariamente la linea del minimo sforzo, ed aggiunge: «la classe operaia va spontaneamente al socialismo, ma l’ideologia borghese, che è la più diffusa… resta pur sempre l’ideologia che, spontaneamente, soprattutto si impone all’operaio» (3); di qui la necessità di un’azione sul proletariato che, partendo dalle condizioni obiettive del sistema economico, indichi la via rivoluzionaria, in quanto in essa trovano soddisfazione sia le esigenze di fondo sia quelle contingenti e particolari della classe operaia; leggiamo infatti: «… l’ideale di un socialdemocratico non deve essere il segretario di una ‘trade-union’, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione d’arbitrio e oppressione, ovunque essa si manifesti…» (4). Lenin non conclude però che azione sindacale ed azione politica debbano svolgersi nel medesimo ambito organizzativo; sindacato e partito debbono restare distinti poiché il partito è, in condizioni di lotta, una formazione ristretta e saldissima composta di rivoluzionari professionisti, mentre il sindacato raccoglie la massa degli operai non in base alle distinzioni politiche, bensì in base ai loro interessi economici. La permissività politica nell’affiliazione sindacale non esclude che tra sindacato e partito debbano sussistere stretti legami: il sindacato rappresenta la modalità organizzativa propria del partito per far giungere il messaggio politico alla massa operaia, e perciò può definirsi una scuola di socialismo. Non a caso Lenin polemizzò duramente con i socialisti rivoluzionari e con Plechanov (5) a proposito appunto della neutralità del sindacato: la teorizzazione di una neutralità ideologica dell’azione sindacale significa appunto isolamento dal partito tanto del sindacato in quanto struttura organizzativa, quanto della massa operaia che soltanto così, attraverso la promozione dei suoi interessi economici, può essere politicamente avvicinata” (pag 164-165) [(in) capitolo di Bruno Manghi: ”L’analisi del conflitto industriale e dell’esperienza sindacale come momento di una più vasta visione sociale’, (in) Guido Baglioni, ‘Il problema del lavoro operaio. Teorie del conflitto industriale e dell’esperienza sindacale’, Milano, 1967] [(1) Lenin, “Che fare?”, in ‘Opere scelte’, 2 voll. Mosca, Ed. in lingue estere, V ed. 1948, pp. 141-258 (edizione originale 1902); (2) Lenin, Ibidem, pp. 166-167; (3) Lenin, Ibidem, p. 167; (4) Lenin, Ibidem, p. 198; (5) Lenin, “La neutralità dei sindacati”, in “Sui sindacati” (ed. originale 1908), cit., pp. 18-31] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]