“Ma anche nell’ambito dello stesso discorso marcusiano si possono cogliere tratti che indicano una cattiva lettura di Marx. Il concetto di ‘impoverimento relativo’ di Marx viene sostanzialmente negato, e residua quale unica forma quella dell’impoverimento assoluto (il quale solo comporterebbe “il bisogno e la necessità assoluti di rovesciare condizioni di vita intollerabili”). Non è il caso di addentrarci in una polemica che è durata decenni e forse non è spenta tuttora; ma non si può fare a meno di ricordare che l’interpretazione secondo la quale Marx avrebbe fatto derivare la necessità della rivoluzione da un crescente impoverimento “assoluto” delle classi lavoratrici (e non dalla contraddizione fondamentale rappresentata dallo sfruttamento capitalistico) fu quella revisionista e più in generale dei critici di Marx a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Essa era tesa a dimostrare che – non avvenendo di fatto un impoverimento materiale della classe operaia nel corso dello sviluppo capitalistico – le tesi di Marx e le sue previsioni erano sostanzialmente fallite. In realtà, Marx  accenna in alcuni punti del ‘Capitale’ a una tendenza all’impoverimento “assoluto”, ma: in primo luogo, fa immediatamente cenno alle controtendenze che agiscono e si fanno più forti (è nota la citazione del tradeunionismo a tale proposito) a misura che si sviluppa la classe operaia; e, in secondo luogo, pone soprattutto l’accento sull’impoverimento ‘relativo’, ossia sul crescente squilibrio nella distribuzione del prodotto netto fra operai e capitalisti, pur in presenza dell’aumento della sua massa e quindi anche della massa e, in casi frequenti, del saggio dei salari reali. Non a caso, del resto, il valore della forza di lavoro (il salario in senso lato) è visto da Marx come un valore particolare, in cui entra ‘una componente storico-sociale’ che muta a seconda del livello raggiunto dalla  società. Se questa interpretazione è corretta, molti dei giudizi di Marcuse sull’integrazione totale della classe operaia – e soprattutto quello, assai netto, secondo il quale la classe lavoratrice “non appare più come la contraddizione vivente della società costituita” (pag. 51) – vanno per lo meno ridimensionati; accettabili quindi come possibilità tendenziali, contro le quali però il movimento storico reale oppone altre e forse più forti controtendenze nell’ambito degli stessi paesi capitalistici avanzati. (…) [Marcuse] ne dedurrebbe dunque una integrazione operaia anche “nella fabbrica; nel processo materiale di produzione”; e se pure Marcuse non arriva a far propria una nota posizione di Serge Mallet, secondo la quale oggi si assiste alla trasformazione del capitale variabile in capitale costante (ossia alla identificazione del lavoro morto e lavoro vivo), tuttavia è implicita nel suo discorso una posizione assai simile. A questo punto è necessario tornare al concetto di “integrazione”, per affermare intanto il suo carattere di categoria ‘storica’. Non si può – come sembra fare Marcuse – tracciare una sorta di sviluppo lineare della classe operaia verso forme di integrazione sempre più complete, fino a giungere alla scomparsa, nell’universo tecnologico, della classe stessa, senza fare una sorta di metastoria in cui le categorie fondamentali della società, i rapporti di produzione, lo sfruttamento, sono messe tra parentesi e sembrano non agire più se non a livello soggettivo (e di fronte a questo livello sono assorbite dal pensiero unidimensionale di fronte al quale “il concetto dialettico manifesta la propria disperazione”). In realtà la storia del capitalismo, e in essa quella della classe e del movimento operaio, presentano anch’esse una dialettica interna – o, se si preferisce, configurano fasi di sviluppo storicamente determinate – che occorrerebbe esaminare appunto nella loro concretezza storica” [Camillo Daneo, ‘Marcuse e la società tecnologica’, in ‘Problemi del socialismo’, Roma, n. 19-20 giugno-luglio 1967]