“[S]e è vero che nei ‘Grundrisse’ Marx esamina la socializzazione della produzione, «l’universo compatto» della produzione e della circolazione, egli non sembra mai avere dubbi sull’improduttività del lavoro riguardante le occupazioni dello Stato che rappresentano una «specie di elemosina onorevole» (’18 Brumaio’). Infatti, se per Marx i lavoratori autonomi non sono né produttivi né improduttivi, ma sono «altro » rispetto al modo di produzione capitalistico, le occupazioni dipendenti che non forniscono direttamente lavoro al capitale (innalzamento del plusvalore) sono improduttive (gli impiegati dello Stato e i domestici). Più controversa è in Marx la questione sulla produttività delle occupazioni dipendenti nei trasporti, nel commercio, nelle banche, nella pubblicità e nelle assicurazioni. In questi settori, infatti, da un lato il lavoro non è direttamente fornito al capitale, ma dall’altro lato vi si riscontra spesso un’organizzazione d’impresa con ‘ratio’ capitalistica e gli operatori percepiscono profitti derivati direttamente o indirettamente dal processo di accumulazione capitalistica. Secondo Altvater, essendo le categorie di lavoro produttivo e improduttivo (58) collegate con la produzione ‘immediata’ di plusvalore, la terziarizzazione rappresenta un’estensione di lavoro ‘prevalentemente’ improduttivo. L’innalzamento del lavoro improduttivo è dunque necessario alla riproduzione del capitale complessivo (59). «Le spese improduttive contribuiscono a sostenere la produzione, nella misura in cui come potere d’acquisto di «un nuovo gruppo» di consumatori – addetti alla pubblicità, impiegati statali, militari, disoccupati – esse tendono a facilitare l’alienazione dei beni di consumo e la realizzazione del plusvalore come capitale monetario. Ma nella misura in cui sono tratte dal plusvalore prodotto altrove esse tendono a ridurre il saggio netto del profitto. Questo aspetto dell’aumento delle spese improduttive tende ad approfondire e a prolungare le depressioni, esattamente come la parte che esse hanno nel favorire la realizzazione del plusvalore tende a procrastinare e attenuare la gravità della depressione» (60). La tendenza alla depressione nel capitalismo moderno, provocata dalla difficoltà nella realizzazione del surplus economico, può essere ottenuta solo riducendo tale surplus effettivo mediante l’estensione dello spreco e dell’irrazionalità della produzione e della distribuzione, solo elevando i consumi superflui e mobilitando lavoro improduttivo. Questa riduzione del surplus effettivo, non potendo essere affidata all’iniziativa dei singoli capitali, richiede «un mutamento generale delle istituzioni, dei consumi e dei valori», investe la società nel suo insieme e in particolare lo Stato: «’il grosso del compito deve essere affidato allo Stato’» (61). E’ dunque lo Stato che deve farsi carico delle contraddizioni intrinseche al meccanismo di riproduzione del capitale, della ‘socializzazione’ delle crescenti difficoltà del binomio produzione-consumo. Ma contemporaneamente, lo Stato deve far fronte alle ‘conseguenze’ sociali provocate dallo sviluppo monopolistico le quali si presentano come problemi di legittimazione della posizione di comando: prima fra tutte, è il problema della ‘sovrappopolazione relativa’, che costituisce l’altra faccia della medaglia della contraddizione interno allo sviluppo del capitale che si fa contraddizione nella riproduzione della formazione sociale, come problema di legittimazione. Marx intuì questa tematica riconducendola al processo di cambiamento ‘qualitativo’ della composizione del capitale, in termini di riduzione del peso della parte costitutiva variabile a seguito della rivoluzione tecnica. «Questa diminuzione relativa della parte costitutiva variabile (del capitale) […] appare […] ‘come un aumento assoluto della popolazione operaia costantemente più rapido di quello del capitale variabile ossia dei mezzi che danno occupazione […] [si forma] una popolazione operaia relativamente addizionale, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua […]. L’aumento assoluto del capitale non è accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro’ […]. Il macchinario […] costantemente rende superflua una parte della popolazione, getta sul lastrico una parte della popolazione lavoratrice. Esso produce una sovrappopolazione» (62). E’ lo Stato che deve farsi carico di «sistemare» la sovrappopolazione: «[La borghesia nella macchina statale] mette a posto la sua popolazione superflua; qui essa completa, sotto forma di stipendi statali, ciò che non può incassare sotto forma di profitti, interesse, rendite, onorari» (’18 Brumaio’). Seguendo il concetto marxiano di sovrappopolazione si arriva a concepire ampi settori dei nuovi ceti medi come strati marginali improduttivi, effetto dell’«emarginazione nello sviluppo»” [Carlo Carboni, ‘Tra ceto e classe’] [(in) ‘I ceti medi in Italia tra sviluppo e crisi’, a cura di Carlo Carboni, Roma Bari, 1981] [(58) Su tali temi, vedi un’utile antologia di P. Gambero, ‘Lavoro produttivo e lavoro improduttivo’, Loescher, Torino, 1980; (59) E. Altvater, ‘Il capitalismo negli anni Settanta’, Mazzotta, Milano, 1972; (60) J. Gillman, ‘Il saggio di profitto’, Editori Riuniti, Roma, 1962 (ma 1957), p. 186; (61) P.A. Baran ‘Saggi marxisti’, Einaudi, Torino, 1976 (ma 1969), p. 273; (62) K. Marx, ‘Il Capitale’, Editori Riuniti, Roma, 1973, I, 3, pp. 80 e 90 e ‘Storia delle teorie economiche’, Einaudi, Torino, 1971, II, p. 630]