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“La stessa coscienza della decisiva importanza per la storia di tutto il mondo che l’immissione della Cina nel ciclo storico mondiale e la conseguente rivoluzione (contro l’antico ordine e contro la dominazione occidentale) avrebbero avuto, pone Marx assai più vicino a noi che ai suoi contemporanei, cui mai sarebbe occorso di concepire i cinesi e gli indiani come soggetti attivi di un qualsiasi processo storico né tanto meno come fattore decisivo in una fase di esso. Ma ancor più innovatori erano gli elementi di giudizio concreto sui quali Marx fondava la consapevolezza del peso del nuovo fattore entrato in gioco nella situazione mondiale: esso si basava infatti soprattutto sulla concezione dell’irreversibilità dei fenomeni che la invasione capitalistica aveva provocato con reazioni a catena nelle società asiatiche. Basilare per ogni indagine sulla situazione cinese è infatti per Marx la constatazione che «un isolamento completo era premessa necessaria per la conservazione della vecchia Cina» e l’intuizione che quell’isolamento era frutto di una deliberata scelta della classe dirigente cinese, che volle evitare ad ogni costo e finché poté un contatto del paese con «i germi» della nuova società che i mercanti europei portavano, nella giusta persuasione che quel contatto avrebbe significato il crollo delle vecchie strutture feudali. Quest’ultimo elemento distingue nettamente l’analisi condotta da Marx sull’«apertura» della Cina dalle concezioni generalmente accettate con certezza assiomatica da tutti i borghesi ottocenteschi, secondo le quali la classe dirigente cinese avrebbe impedito ai mercanti britannici di affermare il loro «naturale diritto» a commerciare sul suolo del Celeste impero soltanto per cecità politica e «inumanità», alterigia nazionalistica e razziale, ignoranza assurda ed incomprensibile spregio dei benefici del commercio e della scienza. La realtà era invece proprio nel senso dell’intuizione di Marx, anche se egli non era allora a conoscenza dei dati storici ed economici per dimostrare in qual modo la classe dirigente cinese aveva deliberatamente e coscientemente operato la chiusura al commercio europeo. Agli storici marxisti che negli ultimi decenni hanno affrontato il problema sulla base di materiale che solo ora consente di delineare una storia economica della Cina è stato possibile tracciare un quadro della società cinese nei secoli precedenti l’«urto» con la società capitalistica che suffraga in pieno e spiega col metodo che sarebbe stato caro a Marx le ragioni del fenomeno da lui sommariamente rilevato. Sotto la dinastia Ming (1368-1644) si era avuta in Cina una forte espansione economica, in particolare si erano moltiplicate le manifatture, statali e private con il manifestarsi dei fenomeni del salariato e del credito (in forme iniziali), con la comparsa dei tributi e della rendita fondiaria in denaro, con l’aggravamento della tensione agraria e la conseguente necessità di ricorrere ad un intervento armato di forze feudali-tribali (i Mancesi saliti poi sul trono), per stroncare la rivoluzione nel paese e soprattutto nelle campagne che rappresentavano il centro dell’attività produttiva. In questa situazione la scintilla esterna avrebbe provocato l’esplosione che infatti ebbe inizio con la guerra dell’oppio e si concluse solo nel 1949 quando il ciclo rivoluzionario fu interamente compiuto: la classe dirigente cinese aveva «chiuso» la Cina a quella scintilla. In queste pagine Marx dimostra che di fronte alla logica dell’economia capitalistica nessuna «chiusura» avrebbe potuto resistere. Egli però non conosceva il corso preciso della storia sociale cinese prima dell’invasione occidentale, ed ignorava soprattutto la complessità dei fenomeni che l’avevano contraddistinta. Nelle sue pagine si ritrovano larghi indizi per affermare che egli riteneva la società cinese assai più semplice e meno contraddittoria (e probabilmente anche più «barbara») di quanto essa in realtà fosse: Marx tende infatti (e ciò deriva indubbiamente dalla mancanza di informazioni sulla storia della Cina nell’Europa del tempo suo) a considerare la Cina da sempre statica e immobile nella sua primitività economica e sociale e a porre il paese, così come l’India, su un piano assai prossimo a quello delle primitive società tribali dell’Africa. Egli non sembra sospettare che la società cinese si sia arrestata ad un livello di sviluppo eguale a quello della società europea del tardo medioevo non per mancanza di tensione e di contraddizioni sociali, bensì per l’incapacità di risolvere le gravissime tensioni e contraddizioni che si erano poste in modo sempre più grave nel corso del suo processo storico e che il peculiare regime di «feudalesimo burocratico» era riuscito bensì a bloccare ma mai a superare. Questa mancata conoscenza delle caratteristiche proprie della società cinese tradizionale spiega l’orientamento che Marx assunse nell’interpretazione della rivolta dei T’ai-p’ing. Se va dato atto che Marx intese allora assai più di molti altri europei l’importanza del fenomeno rivoluzionario che scosse la Cina alla metà del secolo scorso e fu colpito dalla sua entità, egli tuttavia errò nell’attribuirne la causa principale alle rovine portate in seno all’artigianato cinese dalla concorrenza dei manufatti europei o, più in generale, dai mutamenti rapidamente ripercossisi sulla Cina a seguito della guerra dell’oppio. La rivoluzione dei T’ai-p’ing fu un fenomeno assai complesso, sul quale influirono indubbiamente l’impoverimento derivato alla Cina dalla guerra dell’oppio ed il drenaggio dell’argento (assai giustamente segnalato da Marx in tutta la sua importanza) dalla Cina alla Gran Bretagna, ma che tuttavia derivò la sua caratteristica primaria dal fatto di essere una colossale rivolta contadina contro la sperequazione nella proprietà della terra: questa sperequazione era stata fenomeno ricorrente nella storia della Cina e si era aggravata dopo il sec. XVII, in quanto non era più intervenuto il ciclico ripetersi delle rivolte contadine e delle riforme agrarie che nei secoli precedenti aveva in qualche modo ristabilito l’equilibrio. La penetrazione occidentale aveva inasprito proprio questo  aspetto della tensione sociale cinese, per l’aggravio dell’incidenza fiscale derivante dalla necessità di pagare i tributi agli occidentali per l’aumento del prezzo dell’argento, che faceva rincarare ulteriormente i fitti e le tasse gravanti sui contadini (e pagati in natura ma sulla base del valore dell’argento): tuttavia le ragioni strutturali che portarono alla rivoluzione preesistevano all’invasione occidentale, non furono portate da essa, come Marx sembra in più di un punto accennare. (…) Sempre alla tendenza di Marx di attribuire le contraddizioni sociali manifestatesi in Cina alla metà dell’800 all’invasione occidentale, mettendone invece in secondo piano l’origine autoctona, risale la tesi secondo cui la corruzione amministrativa sarebbe stata portata in Cina degli occidentali (p. 161) (…)” [Enrica Collotti Pischel, ‘Marx e la fase iniziale dell’imperialismo’, (in) ‘Rivista Storica del Socialismo’, Bergamo, n. 11 1960] (pag 834-835)