“Marx non prestò alcuna attenzione alle formulazioni della scuola neoclassica che a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento soppiantò anche nell’insegnamento accademico quella classica. (…) Invece l’intero pensiero economico marxiano può essere letto come critica della dottrina classica: la stessa sua opera fondamentale ha per sottotitolo ‘Critica dell’economia politica’ e anche le sue ‘Teorie del plusvalore’, note pure come ‘Storia delle teorie economiche o Libro quarto del Capitale’, costituiscono un esempio di metodo critico di singolare valore. Pertanto, riassumere in poche righe la critica marxiana delle teorie classiche, equivale a scrivere quel libro intitolato ‘Brevi note sull’universo’ spesso citato e mai pubblicato. Marx non risparmiò elogi a Smith e soprattutto a Ricardo la cui impronta appare nitidissima in tutti i suoi scritti più importanti. Disprezzò come meri ripetitori ed apologeti del sistema capitalistico la maggior parte degli altri classici definendoli “economisti volgari”. «La storia dell’economia politica moderna si conclude con Ricardo e Sismondi… la letteratura economico-politica successiva si perde in compendi eclettici, sincretistici, come ad esempio l’opera di John Stuart Mill, oppure nell’elaborazione più approfondita di singole branche… oppure nella riproduzione di vecchie controversie economiche per un pubblico più vasto e nella soluzione pratica di questioni di attualità, come gli scritti sul libero scambio e il protezionismo… E’ indiscutibilmente una letteratura di epigoni: riproduzione, perfezionamento formale, più ampia assimilazione della materia, messa a fuoco, popolarizzazione, sintesi, elaborazione di dettagli, mancano fasi di sviluppo salienti e decisive: da un lato si fa l’inventario, dall’altro si moltiplicano i particolari» (50). La sua critica fondamentale coinvolse tuttavia l’intera scuola, al di là degli errori e delle insufficienze teoriche, alcune delle quali – come quelle insite nella teoria del valore ricardiana – mise opportunamente in luce. Questa critica di fondo investe il carattere storico, ossia transitorio, delle categorie economiche e delle leggi da essa evidenziate. «Gli economisti (classici) – sostenne – hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorti di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le quote produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne, sono quelle che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più» (51)” [Giuseppe Casale, Giulio Gianelli, ‘Economia di mercato, interventismo ed economia pianificata: aspetti teorici a confronto. Volume I. Dall’interventismo mercantilista al liberalismo neoclassico’, Genova, 1991] [(50) Marx, ‘Lineamenti fondamentali’, pp. 1027-28; (51) Marx, ‘Per la critica’, p, 103]
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