“Prendiamo ad esempio il profitto, che – nell’economia classica premarxiana – era generalmente confuso con il plusvalore. Se è vero, nota Marx, che il profitto come massa deriva direttamente dal plusvalore, è altrettanto vero che la distribuzione del profitto a livello di impresa non corrisponde se non casualmente alla quota di plusvalore prodotto in quella impresa stessa, ma alla quota di capitale che l’impresa impiega nel processo produttivo. In altri termini, se il plusvalore è la fonte sociale del profitto, quest’ultimo è la risultante di un continuo “aggiustamento” concorrenziale a livello di imprese, per cui quote uguale di capitale tendono attraverso la concorrenza (ossia la mobilità di capitali) a ottenere saggi tendenzialmente uguali di profitto, pur producendo saggi diversi di plusvalore. Usando la parola di Marx: “Il limite assoluto della parte di valore che costituisce il plusvalore […] è quindi dato; esso è determinato dalla eccedenza della parte non pagata della giornata lavorativa su quella pagata, quindi dalla parte di valore del prodotto complessivo in cui si attua questo plusvalore. Se diamo, come ho già fatto, a questo plusvalore determinato nei suoi limiti e riferito al capitale complessivo anticipato, il nome di profitto, questo profitto, considerato secondo la sua grandezza assoluta, è uguale al plusvalore, quindi i suoi limiti sono determinati da leggi così come i limiti del plusvalore. Ma l’ammontare del saggio del profitto è del pari una grandezza contenuta in certi limiti determinati dal valore delle merci. Questo saggio è il rapporto tra il plusvalore complessivo e il capitale complessivo anticipato alla produzione. Se questo capitale è 500 (poniamo milioni) e il plusvalore è 100, il 20% costituisce il limite assoluto del saggio del profitto. La distribuzione del profitto sociale in conformità a questo saggio fra i capitali investiti nelle diverse sfere di produzione crea prezzi di produzione, che differiscono dal valore delle merci e che sono i prezzi medi di mercato effettivamente regolatori. Questo scostamento, tuttavia, non sopprime né la determinazione dei prezzi per mezzo dei valori né i limiti del profitto regolati da leggi. Mentre il valore di una merce era uguale al capitale in essa consumato più il plusvalore in essa contenuto, il suo prezzo di produzione è ora uguale al capitale in essa consumato, più il plusvalore che ad essa tocca in virtù del saggio generale di profitto, per es. il 20% sul capitale anticipato per la sua produzione, sia esso consumato o semplicemente impiegato. Ma questa aggiunta è del 20% e non del 10 oppure del 100. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione non sopprime i limiti del profitto, ma modifica semplicemente la sua ripartizione tra i diversi capitali particolari che compongono il capitale sociale (…) sì da rendere possibile un prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore delle merci, su cui il monopolio esercita la sua azione, i limiti dati dal valore delle merci non sarebbero per questo soppressi. Il prezzo di monopolio di determinate merci trasferirebbe semplicemente ad esse una parte del profitto degli altri produttori di merci” (2). La citazione, anche se lunga, ha il vantaggio di esporre chiaramente i rapporti fra plusvalore e profitto, suggerendo anche le implicazioni che il monopolio comporta nel determinare la distribuzione del profitto stesso. E a questo punto si può tornare alla “posizione teorica” di Baran e Sweezy, per la quale non si dovrebbe più usare il termine di plusvalore ma quello di sovrappiù, in quanto i “travestimenti” del surplus sono numerosi. Il fatto è che il surplus dei nostri autori non sembra avere una forza teorica sufficiente a giustificarne l’impiego sostitutivo. In quanto a travestimenti, quale maggiore travestimento (o, meglio, mistificazione) del profitto, dell’interesse, della rendita, nei confronti del plusvalore?” [Camillo Daneo, “Osservazioni sullo schema teorico de “Il capitale monopolistico” di Baran e Sweezy. (Argomenti)”, ‘Problemi del socialismo’, Roma, n. 30, maggio 1968] [(2) Marx, ‘Il capitale’, III, 3, pag. 275-76, Edizioni Rinascita, Roma, 1956]