La fondazione dell’Internazionale nell’ottobre del ’64 e la sua vita intellettuale e organizzativa negli anni seguenti segnarono il primo consistente tentativo non solo di organizzazione del proletariato sulla base dei presupposti della lotta di classe, ma anche di analisi della “questione militare” e della guerra, e di proposte sulla pace, che si riverberarono fino ai giorni nostri nella storia del movimento operaio. Anche in tema di pace e di guerra – è stato di recente comprovato da Madeleine Rebérioux (*) – il pensiero di Marx e di Engels si integrò e si immedesimò negli anni ’70 dell’Ottocento col dibattito del movimento operaio internazionale, ne fu il risultato e nello stesso tempo ne fu parte determinante. E’ perciò pienamente condivisibile quanto la studiosa annota: “Lo sguardo che Marx ed Engels rivolgono alla guerra è profondamente diverso da quello dei borghesi liberali loro contemporanei, i cantori della pace, un Cobden, un Lamartine. Forma organizzata della violenza, ogni guerra è ai loro occhi al tempo stesso una conseguenza, un momento e una posta nella lotta delle classi: è l’espressione del livello delle forze produttive e mezzo che le trasforma, è continuazione della politica, naturalmente, ma anche atto mediante il quale possono trovarsi modificati i rapporti di classe”. Alla luce della variegata problematica marx-engelsiana, la stessa Rebérioux rileva ancora che i socialisti non furono e non sono “gli apologeti della pace a ogni costo”, e che non ci fu né c’è immediatamente coincidenza fra marxismo e pacifismo, perché il fenomeno della guerra dev’essere visto sempre nell’ottica di classe. Fin dall’atto di nascita, cioè dai suoi Statuti costitutivi – stesi dopo ripetute discussioni e polemiche da Marx e in persona -, l’Internazionale, accanto ai problemi “di classe” dell’autoemancipazione operaia e dell’azione politica del proletariato, si pose l’obiettivo diretto dell'”unione fraterna” fra i lavoratori dei diversi paesi, perché, veniva sancito, “l’emancipazione della classe operaia, non essendo né un problema locale né nazionale, ma sociale, abbraccia tutti i paesi nei quali esiste la società moderna, e per la sua soluzione dipende dal concorso pratico e teorico dei paesi più progrediti”. Fine dell’Internazionale sarebbe stato appunto (e lo fu poi nei fatti) dar vita a un “centro di collegamento e di cooperazione tra le società operaie esistenti nei diversi paesi, che aspirino al medesimo scopo, e cioè: il mutuo soccorso, il progresso e l’affrancamento della classe operaia”. Azione economica (cioè lotta sindacale) e azione politica avrebbero dovuto procedere appaiate, tenendo conto delle esigenze e delle condizioni specifiche delle singole nazioni, ma mosse da intenti di trasformazione sociale che non potevano restare ridotti e locali. Donde veniva ventilata da Marx (nell”Indirizzo inaugurale’ che precedeva gli ‘Statuti’ del 1864) la necessità che il proletariato organizzato si desse una concreta e rivoluzionaria “politica estera”. Al centro di quest’ultima non potevano non essere la lotta, lo smascheramento e la denuncia costante contro le politiche aggressive, di guerra, degli Stati europei e della Russia zarista. Veniva sancito nella sezione finale del documento marxiano: “(…) Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno, come possono esse compiere questa grande missione, quando la politica estera non persegue che disegni criminali e, sfruttando i pregiudizi nazionali, non fa che sprecare il sangue e i tesori dei popoli in guerre di rapina?”” [Gian Mario Bravo, ‘”Guerra” e “pace” nel pensiero di Marx e nelle discussioni della Prima Internazionale’] [(in) ‘Pace e guerra nella storia del socialismo internazionale’, a cura di Corrado Malandrino, Torino, 1984] [(*) Madeleine Rebérioux, “Il dibattito sulla guerra”, in ‘Storia del marxismo’, 2. Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino, 1979]
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- Articolo pubblicato:26 Giugno 2017