“Le relazioni tra gli economisti marxisti e quelli «accademici» sono mutate negli anni più recenti. Durante l’età marshalliana li divideva un baratro che sembrava incolmabile. Gli uni erano impegnati a scoprire i difetti del sistema capitalistico, gli altri a sottolinearne le caratteristiche positive; gli uni consideravano il sistema come una fase storica transitoria, contenente in sé i germi della propria dissoluzione, gli altri lo vedevano quale una permanente, quasi logica, necessità. Questa fondamentale differenza d’interpretazione era stata rafforzata da una diversità di linguaggio, anche perché ciascuna parte, a difesa del proprio punto di vista, aveva usato espressioni e termini fortemente polemici. Così, gli «accademici» avevano descritto l’interesse ottenuto dal capitale mutuato come ‘ricompensa dell’astinenza’, o ‘attesa’, e il profitto quale ‘ricompensa dell’iniziativa’, mentre Marx aveva trattato l’interesse e il profitto (e la rendita) come ‘lavoro non pagato’ o ‘plusvalore’ (il ‘surplus’ del valore prodotto dal lavoro sul valore pagato al lavoro). Questa radicale differenza di posizioni aveva reso impossibile qualunque scambio tra le due scuole. Negli ultimi tempi gli economisti accademici hanno compiuto, per la maggior parte, un sorprendente mutamento. Le circostanze li hanno costretti a concentrare la loro attenzione su quei due problemi, monopolio e disoccupazione, che hanno suscitato dei dubbi circa la validità dell’assioma che tutto va per il meglio nel migliore di tutti i possibili sistemi economici; ed ora essi sono più disposti a scoprire i difetti del capitalismo che a porne in luce i meriti. Il tentativo di rappresentare il mero possesso di capitale (attesa) come un’attività produttiva è stato abbandonato, e guadagna terreno l’opinione che sia un errore trattare il capitale come un fattore della produzione, sullo stesso piano del lavoro. «E’ preferibile considerare il lavoro…, come l’unico fattore della produzione, operante in un dato contesto delle tecniche, delle risorse naturali, attrezzature capitale, e domanda effettiva» (1). E, il che è ancora più importante, il capitalismo non è più considerato come una necessità eterna. Così, scrive ancora Keynes: «Considero l’aspetto capitalistico del ‘redditiero’ come una fase storica di transizione, destinata a sparire quando avrà compiuto il suo ciclo» (2). E il professor Hicks: «Non penso che si possa contare su di una indefinita sopravvivenza di qualcosa di simile al sistema capitalistico [nell’assenza di un ‘trend’ d’innovazioni sufficientemente energico per sostenere l’investimento] … non si può non ritenere che, forse, quella che è stata chiamata la Rivoluzione Industriale degli ultimi duecento anni non sia stata altro che un grande boom secolare» (3). Queste affermazioni sono più vicine a Marx di tutte quelle che, su questo argomento, si possono trovare in Marshall, mentre l’epigramma del signor Kalecki: «La tragedia dell’investimento sta nel fatto di determinare la crisi perché essa è utile» (4), è molto affine a questo di Marx: «L’ostacolo reale della produzione capitalistica è il capitale stesso» (5). Questo mutamento, d’altronde, non ha avuto un diretto contatto con il marxismo: è stato, piuttosto, il risultato di un’esplosione teorica verificatasi all’interno dell’economia accademica. Il sistema di pensiero che ne aveva dominato l’insegnamento (e notevolmente influenzato la politica economica), anche dopo la grande crisi del 1930, considerava la disoccupazione come un mero accidente frizionale; le «naturali forze economiche» tendevano a stabilire automaticamente la piena occupazione. Le crisi venivano studiate come un problema speciale e tenute, in un certo senso, in quarantena, proprio perché la loro teorizzazione non infettasse mai il corpo centrale della dottrina economica. Posta di fronte alla massiccia e persistente disoccupazione del primo dopoguerra, la teoria ortodossa rimase confusa, e coinvolta in una serie di nebulosi sofismi. Da questa situazione l’ha fatta uscire la ‘Teoria generale’ di Keynes, con cui non intendo solamente il libro intitolato ‘The General Theory of Employment, Interest and Money’, ma anche quell’insieme di idee, o piuttosto il sistema analitico, a cui tale libro ha dato il principale contributo, tuttora in via di sviluppo e di perfezionamento, che cerca nuove applicazioni e modificazioni metodologiche atte a trattare i nuovi problemi. Il principale risultato dello sforzo teorico di Keynes fu di tipo negativo (benché abbia avuto molte conseguenze positive, sia per la teoria che per la politica economica). Egli ha dimostrato che non esiste un meccanismo autoregolantesi il quale, in un’economia d’impresa privata non pianificata, tenda a stabilire la piena occupazione” [Joan Robinson, ‘Teoria dell’occupazione e altri saggi’, Milano, 1962] [(1) Keynes, ‘General Theory of Employment, Interest and Money’, p. 213; (2) Ibid., p. 376; (3) ‘Value and Capital’, p. 302; (4) ‘Essays in the Theory of Economist Fluctuations, p. 149; (5) ‘Capitale’, vol. III, cap. XV, par. 2]
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- Articolo pubblicato:6 Giugno 2017