“Nel secondo libro del ‘Capitale’, analizzando la gestione delle imprese ferroviarie, Marx illustra in che modo gli amministratori delle società possano «manipolare i concetti di riparazione e sostituzione al fine di ottenere dividendi» (9). Tali costi – argomenta Marx – possono essere addebitati al ‘conto-capitale’ (cioè allo “Stato patrimoniale”) o al ‘conto-reddito’ (cioè al “Conto economico”), a seconda che siano considerati rispettivamente ‘costi pluriennali’, da ammortizzare gradualmente in un certo numero di anni, o ‘costi di esercizio’ da far partecipare interamente al reddito di un solo anno. Insomma, se si vogliono distribuire maggiori dividendi, i costi di riparazione saranno considerati costi pluriennali; se si vogliono ripartire dividendi minori, saranno considerati costi di esercizio. Se il reddito d’esercizio è abbastanza elevato da poter sopportare la copertura dei costi di riparazione e sostituzione, allora questi si addebiteranno senz’altro al reddito, anche per non distribuire agli azionisti dividendi eccessivamente alti (nel quadro – aggiungiamo noi – di una politica di stabilizzazione dei dividendi adottata dalle imprese più accorte). In definitiva, il reddito d’esercizio è ‘relativo’, dipendendo dalle scelte degli amministratori e dalle manovre che si possono attuare tra le due parti del bilancio (“Stato patrimoniale” e “Conto economico”). Bisogna aggiungere che gli effetti che stiamo esaminando si possono ottenere manovrando anche gli ammortamenti e gli accantonamenti per rischi e oneri futuri. Scissione tra proprietà del capitale e funzione del capitale. Come può avvenire che gli amministratori delle società possano decidere, con procedure che restano velate ai proprietari, l’entità del reddito e dei dividenti da assegnare agli azionisti nonché l’entità degli ammortamenti e degli accantonamenti per rischi (accumulazione impropria)? La risposta di Marx si trova nella sua analisi della moderna società per azioni. Secondo la sua analisi, questo tipo di società è un’istituzione progressiva perché «consente un ampliamento enorme della scala della produzione e delle imprese, quale non sarebbe stato possibile con capitali individuali»; e perché permette la formazione di un «capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato». Si tratta, in definitiva, della «soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso» (10). Nelle moderne società per azioni – continua Marx – gli azionisti-proprietari sono espropriati di qualsiasi potere reale e ridotti a puri e semplici capitalisti monetari. A loro spetta un dividendo che si configura più come interesse che come profitto vero e proprio (11). Il potere reale spetta agli amministratori e, aggiungiamo noi, alla ristretta élite tecnocratica di cui fanno parte. Sono tali soggetti a decidere l’accumulazione in forme e ritmi che la massa degli azionisti stenterebbe ad approvare. Nell’attuazione di tali decisioni giocano un ruolo determinante le tecniche contabili utilizzate dalla contabilità all’italiana: ammortamento, ‘sospensione’ dei costi, valutazione delle rimanenze, ratei e risconti, creazione di fondi rischi. Ecco (per ritornare a una delle affermazioni di Marx sull’ammortamento) alcuni espedienti «per ingannare gli altri partecipanti al plusvalore». Costoro non sono tanto le banche, che hanno fornito il credito all’imprenditore, poiché esse pretendono un interesse fisso che non sta in relazione col risultato economico della gestione del mutuatario. Sono piuttosto gli azionisti-proprietari, espropriati di ogni reale potere e ridotti al rango di semplici capitalisti monetari. Si tratta di un’interpretazione che, sebbene non esplicitata da Marx, si accorda perfettamente con la sua concezione del funzionamento dell’azienda capitalistica” [Antonino Barbagallo, ‘Partita doppia e scissione tra proprietà e funzione del capitale in Marx’, Critica marxista, Roma, n. 1, gennaio-febbraio 2017] [(9) Karl Marx, ‘Il Capitale’, libro II, tomo 1, Editori Riuniti, 1972, p. 187; (10) Karl Marx, ‘Il Capitale’, libro III, tomo 2, cit., p. 122; (11) Ivi, pp. 122-123]